“Chi ha indossato la maglia giallorossa anche solo una volta nella vita, non se la toglie più perché resta in eterno un giocatore della Roma”. Arcadio Venturi – eletto nella Hall of Fame del 2016 – un giocatore della Roma lo è stato e pure di grande spessore. Vestì i colori sociali per nove stagioni – dal 1948 al 1957 – totalizzando 290 presenze e 18 gol. Era un centrocampista che sapeva fare tutto, principalmente era schierato come mediano sinistro e all’occorrenza come mezzala sinistra con il 10 sulle spalle. La sua fu una Roma prima in difficoltà, poi capace di rialzarsi e quindi di arricchirsi di straordinari talenti e ambizioni. Lui, sempre colonna portante, non l'ha mai tradita: “Pensavo di chiudere la carriera qui, avevo 28 anni, poi mi comprò l’Inter: piacevo tanto all’allenatore Jesse Carver che fece di tutto per portarmi a Milano”, ricorda oggi a 87 anni.
Come arrivò alla Roma?
“Era il 1948, ero un diciottenne di buone speranze, ma tutto da verificare in squadre di livello superiore. Militavo in Serie C con la Vignolese, la formazione di una piccola provincia dell’Emilia Romagna. Un osservatore della Roma mi notò e mi portò a Montecatini in prova, dove la Roma era in ritiro. Mi schierarono in una partita amichevole nella quale giocò anche Amadei e la prestazione convinse i dirigenti a tesserarmi”.
Quanto la pagarono?
“Il contratto tra i dirigenti prevedeva questa formula: due milioni di lire alla firma, da versare subito, e poi altri tre milioni e mezzo se avessi giocato trentaquattro partite nei due anni successivi. E invece ne giocai trentaquattro in un solo campionato, al primo. Incassarono sei milioni totali per me. Certo, viene da ridere a pensare alle cifre che circolano oggi nel calcio. Ora i milioni sono di euro e non di lire…”.
L’esordio in campo?
“Avvenne a Bologna, nella prima giornata di campionato, grazie all’allenatore Brunella che mi diede subito fiducia. Si infortunò Zsengeller, serviva un altro uomo di qualità in mezzo al campo. Giocai io, vincemmo 2-1 e da allora il mister non mi tolse più dalla squadra titolare”.
Il primo campionato in giallorosso si concluse con il quattordicesimo posto, una salvezza stentata.
“Vero, evitammo la Serie B per pochi punti, ma questo non servì per evitare la retrocessione nella stagione successiva. Ma era una Roma povera, la società non aveva grandi mezzi a disposizione. Per fortuna, dopo essere tornati in A, arrivò Sacerdoti che attuò un cambiamento radicale. Il presidente portò giocatori di livello internazionale come Ghiggia e costruì una squadra importante”.
Come fu accolta allora la retrocessione dalla piazza?
“Fu una tragedia. Venimmo criticati e in quei giorni uscì pure uno scandalo sui giornali. Alcuni miei compagni di squadra furono “beccati” dalla stampa dopo alcune frequentazioni notturne. C’erano personaggi che giravano intorno alla squadra che favorivano incontri con certe donne dello spettacolo. Potete capire che reazione ci fu quando questa storia venne resa nota. Per fortuna a me non venne mai in mente di dar retta a questi signori poco raccomandabili”.
Restò fuori dalle polemiche?
“Sì, ero molto giovane e qualsiasi cosa facessi dovevo rendere conto al direttore sportivo Biancone. Quando arrivai nella Capitale mi mandarono a vivere presso una famiglia in una camera ammobiliata in viale del Vignola. Io, di Vignola, andai ad abitare a Roma in viale del Vignola. Da non credere. Tutto quello che facevo lo raccontavo al direttore… Lui mi convocava in sede a via del Tritone e lì mi metteva in guardia su vari aspetti. Gli chiesi un permesso pure quando acquistai un’automobile”.
Un permesso?
“Esattamente. Presi una Topolino, una vettura non particolarmente grande. Biancone acconsentì solo dopo avendo chiesto che cilindrata fosse. Ero monitorato dalla mattina alla sera, ma fu una fortuna per la mia carriera”.
Ha citato Ghiggia in precedenza. Che rapporto vi legava? Alcide decise di chiamare il figlio Arcadio in suo onore...
“Vero e glielo sconsigliai pure... (ride, ndr) Arcadio non mi ha mai fatto impazzire come nome, pure oggi non è molto comune, ma a lui piaceva e decise così. Ero un suo grande amico. Tuttavia, avevo instaurato ottimi rapporti con tutti, ho sempre avuto un carattere espansivo”.
Lo stipendio dell’epoca?
“Circa 105.000 lire al mese. Ed era un ottimo ingaggio perché io militavo in una squadra come la Roma che faceva capo a una città con almeno cinquecentomila abitanti. All’epoca lo stipendio variava anche da questo fattore: più persone venivano a vederci allo stadio, più prendevamo ogni mese. Non c’erano ovviamente gli introiti delle televisioni o altre entrate. Tutto dipendeva dal botteghino”.
Tra i quattro eletti della Hall of Fame c’è Giorgio Carpi, che ai suoi tempi era un dirigente romanista. Un ricordo?
“Era una persona perbene e assolutamente capace. A lui mi lega una storia particolare: comprai casa in cooperativa su un terreno che Giorgio visionò per primo. Costruimmo la nostra abitazione in quel lotto io, Carpi, Galli e Tessari. Alcuni di loro ancora vivono in quella zona. Sono passati tanti anni da allora, ma ricordo tutto benissimo come fosse ieri. A Roma ho vissuto gli anni migliori della mia vita”.
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