Eusebio Di Francesco è stato protagonista di una lunga intervista al Corriere dello Sport, dove ha toccato diversi temi: dal suo arrivo nella Capitale, alle condizioni di Schick, passando per il Derby e Francesco Totti. Ecco le parole del tencico giallorosso al quotidiano nazionale
Di Francesco, quando ha capito che sarebbe diventato l’allenatore della Roma?
“I primi contatti risalgono all’inizio di maggio. E i miei dirigenti lo sapevano, perché li ho sempre tenuti al corrente della trattativa. L’ufficializzazione è arrivata…a casa di Sacchi”.
A casa di Sacchi?
“Sì, nel senso che ero in un ristorante di Fusignano con tutta la squadra. Dovevamo giocare lì un’amichevole. Mi arriva una telefonata e un dirigente della Roma mi dice che è fatta. Io ero così contento da rispondere solo: “ok ci vediamo””.
Spalletti sostiene che sia stato lei a offrirsi alla Roma.
“Non so chi abbia detto questa cosa. Ma è falso. Posso dire con grande orgoglio di non essermi mai proposto a nessuno, né da calciatore né da allenatore. Sono sempre stato cercato”.
Chi ha informato per primo dell’accordo raggiunto?
“La mia famiglia. Mia moglie e i miei figli, a cominciare da Federico. A un figlio che tifa Roma non puoi non dirlo subito. Ma l’ho fatto solo quando sapevo che sarebbe stato sicuro. Non prima”.
Come sta Federico dopo l’infortunio?
“Male, purtroppo dovrà fermarsi due mesi. Sono stato a trovarlo a Bologna, da padre. Comunque sono incidenti che capitano. Ha tempo per rifarsi”.
E magari un giorno lavorare alla Roma con lei?
“No, questo non credo sia possibile. Soltanto con un fenomeno come Paolo Maldini, come fece il padre Cesare in azzurro, si potrebbe immaginare una cosa del genere. Per ora Federico deve pensare a crescere, ha già fatto un bel salto di qualità nella testa ma non deve accontentarsi”.
La testa è stata decisiva per lei da calciatore. E lo è anche adesso per i suoi discepoli.
“Nel calcio contano tre componenti: fisica, tecnica e psicologica. Senza la testa non vai da nessuna parte. Ma io avevo anche delle qualità eh, non ero solo un gregario: ho fatto 33 gol in Serie A!”.
Un esempio di calciatore che aveva talento ma ha raccolto meno di quanto potesse?
“Nicola Caccia. Ragazzi, aveva una tecnica pazzesca. Una volta segnò un gol alla Pelè, portando a spasso tutti gli avversari, in un Empoli-Lazio Primavera. Ricordo che a noi compagni diceva: date palla a me, ci penso io. Con quell’accento napoletano che faceva ridere. All’epoca era un dieci geniale. Poi è diventato attaccante puro, in B è stato un ottimo realizzatore, ma avrebbe potuto fare di più”.
Schick a che punto è come testa?
“Non ho ancora avuto modo di parlargli direttamente ma ho saputo che è stato male interpretato. Purtroppo non è stato bene fisicamente e l’ho potuto allenare poco ma vi assicuro che ha dei mezzi tecnici impressionanti. E poi è molto agile pur avendo un gran fisico. Ora vuole e deve dimostrare di essere da Roma”.
Quando lo conosceranno i tifosi?
“Spero di convocarlo già per il Derby. Convocarlo eh, mi raccomando, non scrivete che giocherà subito. La settimana prossima proveremo a rimetterlo in gruppo”.
Dove giocherà quando sarà al top?
“Attaccante esterno, seconda punta o anche vice Dzeko. Vedremo”.
Nell’intervista ha detto di non voler rincorrere i terzini.
“Con me dovrà farlo, se vuole giocare (ride, ndr)”.
Accennava al derby: da vecchio allievo di Zeman, la considera una partita come le altre?
“Ho imparato a capire di no. Da giocatore la prima volta, riscaldandomi sotto la Curva Sud, sentii le gambe che tremavano. Questo è un evento che esula dalla classifica e dal campionato. È una cosa a sé. Certo è bello che sia una partita di vertice. E ci tengo a fare i complimenti a Simone Inzaghi, che conosco bene: sta gestendo il suo gruppo in maniera eccellente”.
Come si batte la Lazio?
“Non voglio svelare molto. Di sicuro non snatureremo le nostre caratteristiche e la nostra mentalità. Non bisogna adattarsi all’avversario, bisogna rispettarlo. Sappiamo che la Lazio è brava a sfruttare le ripartenze, noi metteremo in atto la nostra strategia per vincere la partita”.
E per vincere lo scudetto come si fa?
“Noi dobbiamo lavorare tanto per essere da Scudetto. E ci stiamo attrezzando, conoscendo le nostre rivali. C’è il Napoli davanti che gioca un gran bel calcio. Ma io sono convinto che resti la Juve la squadra da battere: la novità di questo campionato magari è che ci siamo tutti avvicinati di più a loro. E conta che noi siamo lì, pronti”.
Qual è la differenza della Juve?
“L’abitudine a giocare grandi partite una dopo l’altra: campionato, Champions, campionato. Comprano giocatori adatti a questo tipo di stress, di mentalità. E poi ragazzi, hanno lo stadio di proprietà. Quello porta 10 punti in più in classifica”.
Lo vuole costruire anche la Roma.
“Spero che si faccia, per il discorso di cui sopra. E voglio essere su questa panchina quando lo inaugureremo”.
Che tipo di società è questa rispetto a quella che aveva conosciuto da calciatore?
“Un’azienda strutturata e moderna, straordinaria, dove siamo messi nelle condizioni di rendere al meglio. Trigoria è un centro sportivo all’avanguardia, c’è tutto. Prima era un altro calcio, a conduzione familiare, dove magari società organizzate come la Juve erano un’eccezione”.
E allora come si spiegano tutti questi infortuni? I crociati, i muscoli.
“Come ho già detto, non credo alla casualità. Ci stiamo impegnando con i professionisti del settore per risolvere il problema, facciamo molte riunioni. Lavoriamo di più sulla prevenzione in palestra, con determinati esercizi, e aumentiamo i carichi di allenamento”.
Il problema è che si gioca troppo?
“Sì. E ci si allena più forte di prima. La cosa difficile non è tanto la partita. È il viaggio, è il sonno perso. Quando giochi ogni tre giorni non è facile recuperare e nemmeno allenarsi. Vi faccio un esempio che ho avuto a Sassuolo: Magnanelli, professionista al 110 per cento, si è rotto il ginocchio come Karsdorp perché con tanti infortunati non potevo farlo riposare. Andando in campo sempre tre volte a settimana, alla fine il fisico gli ha chiesto il conto”.
A proposito di Karsdorp: come si è rotto?
“Al 65’ era in campo e io vedevo che si toccava di continuo il ginocchio. Poteva sembrare muscolare, gli ho chiesto come andasse e mi diceva “tranquillo, tranquillo”. E invece si era rotto. Capita di non accorgersene”.
Potrebbero essere i calciatori a volte a chiamarsi fuori, ad autogestirsi per riposare.
“Non lo fa nessuno, credetemi. Se chiedi a un calciatore, qualunque calciatore, se si sente di giocare, vi risponderà sempre di sì. Poi a posteriori se le cose vanno male magari ti dice che era stanco. Sono stato calciatore anche io, so come vanno certe cose”.
Di Francesco è stato più bravo da calciatore o lo è di più da allenatore?
“Da calciatore ho tirato fuori il massimo di me stesso. Da allenatore invece devo ancora dimostrare molto, e voglio fare qualcosa di più. La fortuna degli allenatori è che il fisico non si logora, hai più tempo. Almeno finché si resta lucidi con la mente”.
Preferisce essere un allenatore signore o un signor allenatore?
“Tutt’e due le cose. Mi piace un uomo come Ancelotti per come si pone, è un modello di atteggiamento e di stile. Ma mi piacerebbe anche diventare un grande tecnico, proprio come Ancelotti”.
Una volta per tutte: a chi si ispira Eusebio Di Francesco?
“Un po’ a tutti. Mi colpiscono Guardiola, Sarri. In generale amo gli allenatori che trasmettono il loro pensiero senza specchiarsi negli avversari. Ma mi piace anche imparare da me stesso, perché l’intuito è decisivo nelle scelte di un allenatore. Tra gli allenatori che ho avuto ho imparato molto da Capello per quanto riguarda la gestione del gruppo e da Zeman per la fase offensiva e per la cultura del lavoro: adesso tutti diciamo che la ripetitività degli esercizi in allenamento migliora i calciatori ma Zeman lo diceva trent’anni fa. E la sua fase offensiva, in quella fase storica del calcio, non la faceva nessuno”.
Quali sono i presupposti del calcio più efficace?
“È la palla che deve comandare. È fondamentale essere aggressivi per riconquistarla il prima possibile. Meglio, in fase di possesso, cercare il fraseggio corto alternandolo con raziocinio alla verticalità, perché se hai tanti calciatori vicini alla palla e gli altri te la prendono, hai più possibilità di recuperarla con un atteggiamento aggressivo. Lo so che non sempre è facile ma è ciò che ho provato a insegnare alla squadra”.
Le dispiaceva essere definito zemaniano o le dispiace adesso quando le dicono che è diventato capelliano?
“Nessuna delle due cose. Le etichette cambiano e ognuno scrive quello che vuole. Io sono sempre me stesso e cerco di entrare nella testa dei calciatori, provando a trasmettere le mie idee in maniera semplice. Poi non sempre tutti lo capiscono. A Roma c’è voluta un po’ di pazienza per arrivare dove siamo”.
Si può dire che Roma-Atletico e Roma-Napoli siano stati i suoi momenti di svolta?
“Esattamente. Con l’Atletico non stavamo bene fisicamente ma abbiamo resistito, prendendo fiducia. Con il Napoli abbiamo perso perché abbiamo difeso troppo bassi. Io da mesi cercavo di spiegare il contrario e con quell’esempio, la squadra ha capito che doveva osare. Difendere avanzando, non arretrando”.
Anche Dzeko, dopo averla criticata pubblicamente, ha recepito il senso del suo calcio.
“Edin è un campione che non ho scoperto io. Dicendo quelle cose, ha dimostrato di pensare solo a se stesso. Invece dopo il nostro chiarimento ha assimilato un eccellente spirito di squadra. Avete visto che lavoro sta facendo, anche senza segnare?”.
Con un’anima di squadra si è arrivati a Roma-Chelsea 3-0…
“Una grande vittoria. Ma per come la vedo io, è stata meglio la partita d’andata che è finita 3-3 solo per alcuni nostri errori individuali. A Londra abbiamo dominato il Chelsea, pur non vincendo”.
Ora la Roma diventa la mina vagante della Champions?
“In questo momento lo siamo. Ma non è finita. Dobbiamo ancora qualificarci agli ottavi e possibilmente riuscirci come prima nel girone. Partivamo come terza forza, abbiamo fatto un buon cammino finora”.
Per la prima volta da quando Pallotta è presidente, la Roma è autorevole anche in campo internazionale. Quanto c’è di Di Francesco?
“Mi prendo una parte di merito volentieri. Ma bisogna continuare, mantenere la stessa mentalità per restare competitivi”.
Si immaginava di essere a questo punto dopo quattro mesi di lavoro?
“Non immaginavo niente. Ho solo cercato di portare di portare serenità, normalità. E senso di appartenenza, che a Roma è molto importante”.
I tifosi hanno recepito i segnali, visto che si sono riavvicinati alla squadra e ricominciano a frequentare lo stadio.
“Questo mi fa enormemente piacere. Su questo argomento ho parlato chiaro ai calciatori: i tifosi vanno coinvolti. Quando giochi nella Roma riesci a capire cosa significhi questa maglia, non prima. Qui vieni criticato quando le cose non vanno bene: è successo anche a me e potrà succedere ancora, anche se io spero di no. Ma i tifosi ti amano, ti perdonano e ti sostengono sempre. Per meritarli, devi sempre trascinarli con le prestazioni, con l’impegno in campo. Beh, ci siamo riusciti se siamo usciti tra gli applausi anche dopo le partite perse”.
È convinzione diffusa che la Roma rispetto all’anno scorso sia più ricca nella rosa, ma meno qualitativa negli undici.
“Questo lo lascio dire a voi. Per me il mio gruppo è il più forte del mondo. E questa è la rosa migliore che io abbia mai allenato”.
Come ha fatto recuperare i vari Gerson, Juan Jesus, Perotti, Bruno Peres?
“Ai giocatori ho chiesto disponibilità al sacrificio. E loro hanno capito che prima o poi tutti avrebbero avuto una chance. Ci sono calciatori che a volte ti dicono: ok l’allenamento è andato così, ma domenica sarà un’altra cosa. Invece no. La partita comincia lunedì e martedì a Trigoria. E se la domenica il calciatore non gioca, significa che deve ricominciare a impegnarsi di più il lunedì e il martedì successivo”.
In quale calciatore della rosa si rivede?
“Dico Pellegrini, che ho conosciuto bene a Sassuolo. Lui però è più tecnico di me. Io avevo più corsa. Lorenzo ha grandissime potenzialità ma non si deve fermare, accontentare. I giovani non si devono fermare, glielo dico sempre”.
Cosa succede invece all’altro pupillo, Defrel?
“Greg è un calciatore che ha bisogno di rinforzi di autostima. Vi assicuro che è un attaccante forte, molto forte: e questo conta per me, non quanto è stato pagato. Domenica a Firenze è entrato benissimo ma non è riuscito a segnare. Quando ritroverà il gol, passerà tutto”.
E come mai Berardi non ha ancora spiccato il volo per un grande club?
“Prima è rimasto per continuare a lavorare con me, poi perché il Sassuolo ha chiesto molti soldi per cederlo. Per me merita una big e spero la ottenga. Ha solo un carattere particolare, un po’ timido: pensate che all’inizio si vergognava ad andare in Nazionale… Io però riuscivo a gestirlo, perché non è una testa calda e negli allenamenti dà sempre il massimo”.
Avete pensato a lui per la Roma?
“Questo non posso dirlo… Ma se mi chiedete un giudizio su di lui, vi rispondo che lo vorrei sempre nelle mie squadre”.
Il mancato acquisto di Mahrez è stato una grande delusione.
“Sì, era la nostra prima scelta e non siamo riusciti a prenderlo. Ma il dispiacere è durato poco, ci siamo riorganizzati con i calciatori che avevamo”.
Ce n’è uno che l’ha sorpresa tra quelli che non conosceva?
“Alisson. Me ne ha parlato subito bene il preparatore dei portieri, Savorani, ma una volta che l’ho visto in campo sono rimasto stupito dalla sua presenza, dalla tranquillità che trasmette alla squadra”.
Con Totti dirigente che rapporto si è creato?
“A Francesco ho dato solo un consiglio: rubare le qualità di tutti, imparare il più possibile. E lui, che è intelligente, lo sta già facendo. Ovviamente non entra nelle questioni tecniche né mi fa domande sulle formazioni. Del resto io quelle non le dico neppure ai miei collaboratori. Ma mi sta aiutando nella gestione ordinaria. Un esempio: quando andiamo allo stadio lo voglio sempre vicino sul pullman perché con il suo modo di fare stempera le tensioni del prepartita. E conosce bene i giocatori che fino a pochi mesi fa sono stati suoi compagni”.
Vede Totti come allenatore?
“No, altrimenti lo chiamano al posto mio… Scherzi a parte, c’è tempo per decidere. Sceglierà lui cosa vuol fare da grande. Anche a me è successo di cominciare una carriera dirigenziale. Ma per il carattere che ho, non riesco a dipendere da qualcuno. Devo fare da solo. Io sembro buono e gentile ma vi assicuro che a volte in camera caritatis mi arrabbio eccome. Sapeste quante belle discussioni in dialetto abruzzese con il mio staff…”.
Se Di Francesco fosse arrivato un anno prima, Totti giocherebbe ancora a calcio?
“Ma non lo so… Sicuramente ci saremmo confrontati. E se avesse giocato avrebbe fatto turn over anche lui (ride). Abbiamo anche scherzato dopo che ho visto la sua partita tra vecchie glorie a Tbilisi: “France’, andavi a due all’ora”. Lui mi ha risposto: “Però correvo il doppio degli altri…”“.
E se dovesse scegliere un suo compagno della Roma per schierarlo nel derby del 18 novembre?
“Di sicuro dico Francesco, l’unico in grado di risolvere la sfida con una giocata. Cioè vorrei il Totti vero, il miglior Totti, perché mi farebbe vincere la partita”.