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Arcadio Venturi compie 96 anni: cosa ci insegna la sua carriera


Il 18 maggio 1929 quando, 96 anni fa, nacque Arcadio Venturi, la Roma aveva giocato solo 60 partite dalla sua nascita. Il giorno dopo avrebbe vinto 5-1 a Casale.

Oggi, con la Roma che ha raggiunto le 4004 partite ufficiali, Arcadio Venturi festeggia 96 anni vissuti da capitano della Roma. Perché come ebbe modo di dire lui stesso, “chi è un giocatore della Roma lo è per tutta la vita” e questo concetto vale a maggior ragione per chi, come lui, ha indossato la fascia onorandola in ogni momento.

Arcadio Venturi, che oggi festeggia a Vignola, dove è nato, ha sempre avuto dentro di sé tutto ciò che serve per essere un grande romanista e un grande capitano della Roma. Duecentonovanta presenze con la maglia giallorossa in 9 anni, di cui 4 con la fascia al braccio. Una Roma, quella tra il 1948 e il 1957, che è caduta e si è rialzata, che ha perso e che ha vinto, ma che si è sempre fatta amare. 

Una storia, quella di Arcadio Venturi, che iniziò con un provino.


Gli inizi

L'inizio del suo cammino romanista fu in un verbale societario del 19 luglio 1948, un rapido passaggio in cui si mise nero su bianco come il Vignola avesse “aderito alle condizioni per l’acquisto” del giocatore. Aveva 18 anni, un osservatore della Roma lo notò e lo mise alla prova in una partita a Montecatini. La società si convinse subito.

Venturi esordì in giallorosso neanche ventenne il 19 aprile 1948 dalle sue parti, a Bologna, in una fortunata trasferta vinta dai giallorossi per 2-1. Il destino non fa mai le cose a caso. E così lui, di Vignola, dopo aver esordito contro il Bologna, prese casa a Roma. Inutile dire dove, a via del Vignola. Si fece apprezzare subito. Luigi Brunella, suo primo allenatore e difensore della Roma campione d’Italia, riconobbe in lui proprio lo spirito della sua leggendaria squadra. Mediano, mezzala se serve. Numero 6 o numero 10. Corsa, tecnica e grinta. Talmente forte da diventare non solo il primo romanista ad arrivare in Nazionale nel dopoguerra, ma addirittura il primo calciatore a vestire la maglia della Nazionale nonostante la sua squadra militasse in Serie B. Soffrì per la retrocessione del 1951, ma non pensò mai di abbandonare la sua Roma. Primo, pure, tra i romanisti che approdarono in azzurro nel secondo dopoguerra.

Univa la quantità del suo moto infinito a una tecnica individuale che gli consentiva di fare la differenza, a prescindere dal risultato finale. Come il 10 ottobre del 1954, quando segnò un gran gol contro il Bologna. Per essere sicuro che i tifosi lo amassero, andava in incognito dal barbiere e sentiva quanto i tifosi parlavano bene di lui. «Quando giocavo male con la Roma mi sentivo male, il giorno dopo ero costretto a rifugiarmi al bar con gli amici che mi giudicavano per ciò che ero e non per come giocavo. Ma i tifosi della Roma sono un qualcosa di unico, ti fanno diventare più grande di ciò che sei», ha raccontato.


L'esempio

Insegna tante cose, la carriera di Arcadio Venturi. Ad esempio, l'orgoglio di sentirsi romanisti. L'orgoglio con cui vestì la maglia giallorossa per 37 volte su 38 partite nel campionato di Serie B. L'orgoglio con cui vinse quel campionato, quando solo chi lo vinceva tornava in Serie A. E non è un caso se fu proprio lui, a Trieste, nella prima giornata del campionato successivo, a segnare il primo gol della nuova vita della Roma in Serie A.

Ci mise poco a diventare capitano. Un esempio, una guida per tutti, un leader. Giacomo Losi imparò da lui come si portava la fascia. Dovette fare da garante per l'esordio in giallorosso di Alcide Ghiggia, che, non essendo ancora arrivata la documentazione, si ritrovò a giocare “sotto l’assunzione di responsabilità” di capitan Venturi. Il legame tra i due divenne subito fortissimo, al punto che il fuoriclasse uruguayano chiamò suo figlio Arcadio.


L'addio

Segnò un gol anche all'Inter, dove andò nel 1957 e dove, finita la carriera da calciatore, allenò a lungo nel settore giovanile. Marco Delvecchio fu cresciuto da lui e può essere quindi considerato un suo regalo alla Roma, ma non un modo per farsi ricordare, perché, come scrisse lui stesso in una lettera pubblicata sul Corriere dello Sport nel giorno del suo addio alla Roma. "Cari sportivi romani, è con vivo rincrescimento che dalle pagine del Corriere dello Sport io debbo mandarvi il mio affettuoso saluto. Per circa nove anni ho vissuto la vita della Roma, le gioie dei successi, le amarezze della retrocessione. Roma è diventata quasi la mia città di adozione, tanto è vero che pensavo ci sarei rimasto, forse tutta la vita. Ma, d'altra parte, se i dirigenti hanno creduto opportuno di vendermi all'Inter, dove mi troverò certamente bene, vuol dire che la mia cessione era necessaria per la Roma. Mi auguro quindi che i tifosi giallorossi non mi dimenticheranno, come io non li dimenticherò".

Non l’hanno dimenticato ed è grazie a loro che oggi fa parte della Hall of Fame del Club. 

Tanti auguri, Capitano