Dieci stagioni con la maglia della Roma. 279 presenze tra Massima Divisione e coppe. Un rappresentante perpetuo del romanismo.
Giancarlo De Sisti festeggia 80 anni, venne alla luce nel quartiere romano del Tuscolano il 13 marzo 1943. Il papà Romolo venne deportato durante il rastrellamento del Quadraro. Era il 17 aprile 1944, Picchio aveva un anno. Il padre però si salvò, come accadde anche a un giocatore che ha indossato la divisa giallorossa, Alfredo Welby.
Storia della città di Roma. Storia anche della Roma.
Per celebrarne il compleanno, riproponiamo un’intervista rilasciata dallo stesso De Sisti nel 2016, quando fece il suo ingresso nella Hall of Fame del Club.
Ecco le sue parole.
Da dove inizia la sua storia con la Roma?
“Mi presero da una squadra di San Giovanni, la Forlivesi, dove mi portò mio padre per non litigare con mia madre… Giocavo nella parrocchia di Santa Maria del Buonconsiglio sulla Tuscolana. La sera tornavo a casa sudato e mia madre si preoccupava che mi ammalassi.
Mio padre, invece, mi supportava. Lui era stato un buon giocatore di Serie C e non gli dispiaceva affatto l’idea che anche io ricalcassi le sue orme. Insomma, questo era un argomento che li faceva discutere. Per trovare un punto d’incontro mia madre disse a mio padre: “Porta tuo figlio a una scuola calcio dove può farsi la doccia e tornare a casa in condizioni decenti”.
Lui non se lo lasciò ripetere due volte. Andammo alla Forlivesi, superai il provino e da lì iniziò tutto”.
Dopo la Forlivesi, quindi, la Roma.
“Esatto, mi notarono all’età di quindici anni. Mi pagarono con undici maglie e undici paia di scarpe. Di questo tipo di materiali ce n’era sempre bisogno”
Il suo percorso in giallorosso inizia nel settore giovanile con due titoli consecutivi nel “Campionato Ragazzi” nel 1960 con Geza Boldizsar in panchina e nel 1961 con Guido Masetti.
“Ci aggiudicammo anche due coppe Italia. Eravamo una squadra fortissima, tutti potevano sfondare e diventare grandi calciatori di Serie A.
In quegli anni appresi molto da Masetti, il portiere e capitano dello scudetto del ‘42. Un uomo dalla spiccata personalità, bastava uno sguardo per capire cosa voleva. Mi insegnò molto”.
A 18 anni non ancora compiuti l’esordio in Serie A.
“La prima volta in campionato non andò benissimo. Piansi tanto perché non giocai bene. Quel giorno, il 12 febbraio del 1961, l’allenatore Foni mi diede questa grande opportunità, ma mi schierò all’ala destra per sostituire Orlando.
Io ero un centrocampista centrale, dal passo nemmeno tanto veloce. Insomma, avevo caratteristiche che non si sposavano al meglio con il ruolo di esterno. Ma non ci pensai, in fondo era una possibilità unica. E così, parlai con un mio compagno di squadra, il mediano Luigi Giuliano, per trovare una soluzione che permettesse di mettere in difficoltà questo terzino, che si chiamava Valenti.
Purtroppo non ci capimmo e andò male. Perdemmo 2-1”.
Invece si fece notare a Firenze nell’ultima giornata di quello stesso torneo.
“Vero. Foni decise di rimettermi in campo e stavolta disputai una grande partita. Il merito fu soprattutto di Schiaffino che mi aiutò moltissimo in campo e mi diede fiducia.
Giocata dopo giocata presi consapevolezza. Vincemmo 1-0 con gol di Menichelli”.
Ha nominato Schiaffino, uno dei mostri sacri del calcio mondiale. Quanto apprese da lui?
“Fu fondamentale per la mia crescita professionale. Per me era una sorta di divinità. Era a fine carriera, ma dava sempre dimostrazione della sua classe. Sul terreno di gioco e fuori. Di lui ammiravo soprattutto l’umiltà: veniva ad allenarsi con la Seicento o spesso anche in autobus.
Amava ripetere una frase: “Quanto è faticoso fare il calciatore: allenamenti e partite, partite e allenamenti. Ma sempre meglio che lavorare…”. Se sono diventato uno dei più grandi recuperatori di palloni di quell’epoca lo devo soprattutto a lui che mi insegnò come intercettare la sfera guardando negli occhi l’avversario nel momento del passaggio decisivo. Con questo trucco ne ho fregati tanti…”.
A proposito di uruguaiani, Ghiggia? Pure lui è tra i “famers” della Roma.
“Un altro che, come Schiaffino, fece piangere il Brasile nel “Maracanazo”. Capitò di allenarmi con Alcide nella squadra riserve.
Una volta eravamo io, lui, Manfredini, Schiaffino e Selmosson. Tutti fenomeni nella squadra riserve. Inutile dire che io ero il più scarso tra loro…”.
Modesto.
“No, la verità. Le racconto questa: per un periodo Ghiggia faceva panchina a Orlando e a lui questa cosa non andò giù. Durante un allenamento con le riserve, mi chiamò per andare da lui: “Picchio, vieni qui: sei uno dei pochi che può palleggiare con me”.
Io andai e quasi mi vergognavo. E durante i palleggi mi fece: “Ma è giusto che uno come me deve fare la riserva a Orlando?”. Io avevo 18 anni, che gli potevo dire? Ero un ragazzetto, non gli risposi… Mi misi a ridere”.
Proprio Orlando divenne poi titolare fisso nel periodo in cui la Roma vinse la Coppa delle Fiere e poi la prima Coppa Italia (l’esterno romano rimase fino al giugno del ’64), ma nonostante questi successi la Società andò incontro anche a gravi difficoltà economiche culminate nella colletta del Sistina del 1965. Che momento fu?
“Non bello. Raccogliemmo seicentomila lire, una bella cifra, ma non sufficiente per le esigenze della società. E così decidemmo di devolvere quella somma in beneficenza per le vittime del Vajont.
Dopo quella colletta, venimmo derisi in giro per l’Italia più o meno da tutti. A Verona ci tirarono le monetine per umiliarci”.
L’anno dopo, nel ’66, passò alla Fiorentina dove restò 9 stagioni e vinse uno scudetto, un’altra coppa Italia e la Mitropa Cup. Nel ’74 Anzalone la riportò nella Capitale. Come andò quel nuovo trasferimento?
“Mi chiamò il direttore sportivo della Roma di allora, Camillo Anastasi, e mi disse che sia il presidente sia Liedholm mi volevano a tutti i costi. Io decisi di andarmene da Firenze, non andavo d’accordo con Radice.
Così chiamai in società per comunicare l’offerta giallorossa: “Guardate, io voglio andare solo alla Roma. Vendetemi e fate pure lo sconto ad Anzalone…”.
Nella stagione del suo ritorno a Roma trovò una Lazio con il tricolore sul petto.
“Era quello che dissi ad Anastasi appena accettai l’offerta: “Guardate, la Lazio sta prendendo il sopravvento. Bisogna fare qualcosa…”.
Non a caso lei decise il derby d’andata nel ’74 e in quello di ritorno superaste la Lazio al terzo posto.
“Per quella stracittadina che vincemmo con il mio gol la tifoseria mi regalò l’elmo da antico romano. E il derby del sorpasso vinto sotto la pioggia con la rete di Prati fu un’emozione incredibile…”.
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