“Non è un bilancio definitivo, né consuntivo: questa squadra in attività è ancora la mia squadra”, ha dichiarato l’ormai ex Direttore Sportivo del Club. “Questa esperienza non è stata una parte della mia vita, ma la tutta la mia vita. Sono geloso di questo sentimento e anche preoccupato che quello che verrà dopo. La Roma è stata la mia vita”.
Sabatini ha ricoperto il ruolo di Direttore Sportivo a partire dal giugno del 2011.
“Ho fatto un ciclo lungo di 5 anni, con un’osservazione costante che faccio dentro di me. Abbiamo una struttura che funziona perfettamente. Non ci sarà la mia presenza fisica ma quella psicologica sì. Questa è una squadra competitiva, perfettamente allenata da Luciano Spalletti. Dal punto di vista emozionale ed emotivo è mancata la convocazione al circo massimo dei tifosi della Roma. Quella era un sogno, una speranza che saltuariamente si è accesa. Ci sono stati momenti in cui ho pensato che le nostre squadre avrebbero potuto competere per un risultato eclatante: la vittoria dello Scudetto. È il rammarico che mi porto a casa e che mi procura non la rabbia, ma una tristezza cupa, probabilmente irreversibile, a meno che non ci sia un riscatto immediato in questa stagione. Però è una tristezza quieta. Crediamo di aver fatto il massimo. La Roma sono anni che è competitiva: due secondi posti, un terzo grazie all’avvento di un allenatore straordinario e con un gruppo di giocatori competitivo. Concludo dicendo che sono stato il Drettore Sportivo della Roma, esclusivamente il DS della Roma. Non ho fatto nulla in questi 5 anni che non fosse dettata dal fatto che fossi il DS della Roma.
Il posto di Walter Sabatini, come annunciato ieri nel comunicato del Club, sarà preso da Frederic Massara.
“Ricky Massara non va preso come il mio delfino, accettate l’idea che sia lui il DS e che eserciterà il suo ruolo. È molto competente, laureato, educato, di estrazione sabauda. Lo vedrete lavorare e interloquire con un livello di educazione superiore al mio. La Roma avrà il suo futuro anche con lui, e con altri dirigenti molto importanti che sono nel Club. Io tra venti minuti uscirò da qui, e non sarò più il DS della Roma. Rendete la Roma forte, fidatevi dei dirigenti. Con una Roma debole fuori e dentro hanno tutti da rimettere, tranne chi diffama in maniera costante e non sto parlando delle critiche, quelle aiutano. Sostenete la Roma”.
Cosa porterà con sé di questa esperienza?
“Il rapporto con le persone che lavorano a Trigoria hanno una grande passione della Roma e hanno molta competenza. Fidatevi di tutte le nostre persone, sono tutte forti, lavorano con scrupolo e con passione. Questa azienda è ancora dentro i propri obiettivi. La squadra ha fatto qualche risultato contraddittorio, ma sono ragazzi seri che vogliono raggiungere obiettivi importanti.
Quando entrai qui per la prima volta, ricordo di aver detto di essere qui stimolare per una rivoluzione culturale. Questo è il mio fallimento, non è quello dei risultati sportivi. Ho portato la Roma a sedersi su tutti i tavoli del calcio che conta. Ho fatto un mercato rissaiolo, ma ci sono sempre stato, ma non ero io, ero la Roma.
Ho pensato alla vittoria non come una possibilità, ma come una necessità. A Trigoria, i calciatori, i tecnici, i dipendenti, non devono pensare alla vittoria come una possibilità, ma come una necessità. Un evento necessario e perché questo possa succedere serve una rivoluzione: adeguare i comportamenti di chiunque per centrare l’obiettivo. Ho ancora qualche speranza che succeda, perché l’allenatore che c’è in questo momento possa centrarlo, non vincendo ma riuscendo a far considerare la vittoria come qualcosa di necessario. Qui sono molto deluso, si perde e si vince alla stessa maniera: questo è la nostra vera debolezza”.
Quali sono stati i momenti migliori e peggiori di questa esperienza?
“Tra i migliori, c’è il momento in cui ho messo piede qui. Ero super motivato, ottimista. Pensavo di poter fare cose importanti. So di aver fatto qualcosa di importante, ma pensavo a qualcosa di trionfale, che la Roma come squadra, società, gruppo si imponesse.
Ricordo delle vittorie, per esempio il Derby del 2-1, quando il vituperato Ibarbo, che qualcuno ha definito come un’operazione fallimentare, ha compiuto una percussione dalla quale il vituperato Iturbe ha potuto aprire il risultato in una partita che ci ha portati in Champions League.
Ricordo il gol di Bradley a Udine, la nona vittoria consecutiva poi seguita dalla decima contro il Chievo firmata dal “problema” Borriello, come lo definii io nella mia prima conferenza stampa.
Ricordo anche qualcosa di brutto, la sconfitta nel derby di Coppa Italia che è stata però la catarsi, la rigenerazione, l’aggiustamento del mio pensiero. Fino a quel momento pensavo di fare un tipo di calcio. Subito dopo quella partita ho pensato che avremmo dovuto cambiare un po' indirizzo e lo abbiamo fatto con successo.
L’idea di non aver vinto lo Scudetto mi perseguiterà per tutta la vita, a meno che questa squadra non faccia qualcosa di imprevedibile. Mi sentirò ancora parte in causa, quando la squadra vincerà o perderà”.
Dentro la Roma c’è una corrente di pensiero che vede la figura di Totti come un limite per lo sviluppo di altri giocatori: qual è il suo pensiero?
“Io istituirei un Pallone d‘oro unico per lui per tutto quello che ha dato al calcio italiano e internazionale. Le giocate di Totti non sono riproponibili, mentre quelle di altri campioni lo sono. Gli darei il Premio Nobel per la fisica. Le sue parabole, le sue traiettorie mettono in discussione tutti i principi della fisica. Porta una luce abbagliante, che oscura tutto il gruppo di lavoro, anche per la curiosità morbosa per tutto quello che fa e dice anche fuori da dal campo comprime fortemente la crescita di un gruppo di calciatori sempre subordinato a questo. Totti rappresenta una parte di gente che è cresciuta o invecchiata con lui. Tutti fanno fatica a staccarsi da lui e rinunciarci. È un fenomeno che andrà raccontato in futuro da esperti di psicologia e sociologia”.
Ha molto smontato e rimontato la squadra: come si concilia questo con la continuità di un percorso tecnico?
“Per me la Roma deve fare un calcio rissaiolo, frequentare bosco e riviera, fingere di arrivare sugli obiettivi e poi magari prenderli: questa è la mia caratteristica. È vero che nella continuità si vince di più. L’ultimo calcio mercato è stato un po’ statico. Abbiamo deciso di puntellare la difesa puntando sul fatto che centrocampo e attacco hanno fatto bene. Gli infortuni di Rui, Rudiger e Vermaelen non hanno aiutato”.
Le è capitato di sbattere i pugni per non vendere un giocatore?
“Se io vendo Benatia e prendo Manolas, non penso di aver fatto un danno. Penso di non aver mai indebolito la squadra. Se vendo Ljajic e prendo Perotti penso di aver migliorato, con tutto il rispetto di un giovane che ho amato. Queste operazioni sono state fortunate, in altri casi meno, ma sono sempre state fatte per rimanere competitivi. Siamo stati una squadra competitiva e daremo sempre fastidio. Abbiamo avuto la sfortuna di aver fatto una stagione da 85 punti escluse le ultime tre partite e trovare una Juventus che ne ha fatta una irripetibile. Non credo di aver mai prodotto un danno facendo questo mercato. Mancando la continuità forse non si arriva mai a coagulare come gruppo unità d’intenti, modo di giocare e conoscenza”.
Per lei Pallotta sa cosa significa la Roma veramente o è solo un business?
“Se ne rende conto quando viene qui e vede quali passioni e pressioni trova. Però è un imprenditore americano che crede di poter fare le cose in una certa maniera. È un bostoniano, propositivo, incline allo studio della statistica. Io sono un europeo crepuscolare, solitario. Anzi un etrusco residuale più che un europeo. Abbiamo delle idee diverse, ma c’è rispetto reciproco e il fatto che siamo arrivati a una decisione consensuale implica che c’è stato un bel rapporto. Non siamo stati lontani dal raggiungere obiettivi importanti: Milan e Inter vorrebbero essere la Roma in questo momento. Siamo incappati in un periodo straordinario della Juventus, ma non siamo mai stati troppo sotto. Abbiamo fatto due secondi posti con Garcia, poi c’è stato l’arrivo di Spalletti, che finora ha avuto una media Scudetto o secondo posto abbonante”.
Quali sono stati i motivi che l’hanno convinta a terminare il rapporto?
“Sono cambiate le regole d’ingaggio. Io posso fare solo il mio calcio, la mia mente non è elastica per le esigenze dei nuovi criteri di selezione. Il Presidente e i suoi collaboratori puntano su altre prerogative, amano la statistica e cercano un algoritmo vincente. Sarò sostituito da una cultura, un modo di fare diverso che non è condannabile, né censurabile. Io non ritengo di esserne all’altezza. Sono un presuntuoso ma critico. Sono leale: so di non poter dare il massimo e di non poter essere completamente me stesso”.
Che progetti ha per il futuro?
“Non ho nessuna offerta da parte di nessuno. Da oggi pomeriggio sono disoccupato. Per me la vita è un corollario: io sono un direttore sportivo e vivo solo se lavoro. Posso accettare un lavoro ovunque, l’importante è che io riesca a fare il mio calcio, altrimenti mi ritiro nella mia tana, con qualche libro e qualche pennello per impiegare il mio tempo”.
Lei disse ai tifosi di non affezionarsi troppo ai giocatori. Non ritiene che questo abbia diminuito l’empatia con la squadra?
“Io ho detto di non affezionarsi ai giocatori perché questo è il calcio moderno. Ma non capisco perché il tifoso non debba affezionarsi a Perotti, Salah, Manolas o Dzeko. Vi affezionerete a Bruno Peres, perché la sovrapposizione e la palla che ha messo a Edin basterebbe da sola ad accendere la passione nella gente. Per la maggior parte delle società tenere il giocare per più di tre anni dopo buone prestazioni diventa un problema salariale. La Roma come altre società ha un tetto salariale da rispettare, per criteri UEFA ma anche per il buon senso e per la gestione della società. Forse l’ho detto in maniera sbagliata, ma sono tanto affezionato ai miei calciatori, non vedo perché non debbano esserlo anche gli sportivi”.
È mai capitato in questi anni che qualcuno suggerisse chi comprare? E c’è qualcuno che non avrebbe mai voluto ceder?
“Di calciatori ne avrei comprati un centinaio. Ci sono stati calciatori che mi ha fatto male vendere. Ne cito uno senza mancare di rispetto agli altri: cedere Lamela mi ha ucciso. Quando ho ritenuto di poter essere DS della Roma ho imposto questa operazione, importante, impegnativa, perché volevo che la Roma desse un segnale di forza, di presenza. Sempre qualcuno mi suggerisce chi comprare, ma se non ritengo che debba esser fatto, non lo faccio”.
Ha avuto la percezione che Pallotta sia stufato della Roma?
“No, penso che lui voglia rendere più forte la Roma. Sa perfettamente che uno stadio di proprietà darebbe una percentuale più alta per essere competitivi a livello internazionale. Vuole andare avanti e ha idee e speriamo abbia la fortuna di poterle mettere in pratica”.