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Giosuè Stucchi compie 90 anni: il figlio David lo intervista


Allenatori, presidenti e il rapporto con Roma e l'AS Roma: per il suo compleanno, l'ex difensore apre il libro dei ricordi

Il 13 marzo, compie 90 anni uno degli ultimi testimoni della Roma degli anni Cinquanta. Giosuè Stucchi, difensore, è rimasto in giallorosso per sette stagioni: tra il 1954 e il 1961. Nato a Bellusco, piena cintura brianzola, quando fu ceduto al Brescia chiese una sola cosa alla sua Roma: "La divisa sociale". Giosuè si era innamorato.

Per celebrarne il compleanno, abbiamo chiesto al figlio David di intervistare il papà.

Tu non sei romano, ma Roma e la Roma ti sono rimasti nel cuore. Perché?

"Roma era ed è una città unica al mondo. È stato amore a prima vista. Con l'Udinese, che poi mi vendette alla Roma, venni a giocare contro la Lazio. La mattina presto della domenica uscii per fare un rapido giro della Capitale e rimasi folgorato. Sentivo che ci sarebbe stato qualcosa che mi avrebbe portato a Roma".

"Quando a fine stagione mi dissero che tra le società che mi volevano c’era la Roma, sembrò proprio chiaro che questi colori fossero nel mio destino. A Roma ho quindi deciso di rimanere anche dopo la carriera sportiva, ho costruito la mia famiglia e i miei affetti. Come con la città, anche quando conobbi tua madre Bruna - romana - fu amore a prima vista. Ci sposammo il 2 giugno del 1958 e, come sai, stiamo ancora insieme. Roma l'ho sposata due volte".

Cosa vuol dire la Roma per te?

"La Roma ha rappresentato la parte più intensa della mia carriera. La Società mi ha sempre dimostrato stima e affetto. Per non parlare dei tifosi. Erano gli anni Cinquanta, era un calcio diverso e anche i rapporti erano più familiari. Certamente, la Roma mi ha voluto e considerato. E io ho sempre rispettato questo sentimento, ricambiandolo sul campo e fuori".

Qual è l'istantanea più bella della tua carriera in giallorosso?

"Faccio fatica a scegliere un episodio. All'epoca, un difensore era praticamente l'ultimo baluardo prima del portiere ed era raro avere la possibilità di segnare un gol. Sicuramente, le due reti realizzate in Serie A sono un bel ricordo. Ma lo sono anche i grandi duelli con gli attaccanti del tempo, tutti formidabili calciatori".

"Forse, quello più significativo avvenne durante un Roma-Juventus del 1958 (il 19 gennaio, ndr). Marcavo John Charles e fu una sfida bellissima, vincemmo 4-1. La maggiore soddisfazione fu la stretta di mano con lui a fine partita. Lealmente, Charles mi fece i complimenti".

A quale giocatore e a quale allenatore sei stato più legato?

"Eravamo un gruppo unito. Ricordo con affetto tutti i compagni con i quali ho avuto la fortuna di giocare. In particolare Panetti: un fratello. Tra gli allenatori, non posso dimenticare Carver e Sarosi. Erano due tecnici moderni, portavano delle cose nuove in un mondo del calcio, a quei tempi, molto rigido. Con Sarosi ebbi un rapporto speciale, fatto di grande fiducia".

Quali sono stati i tuoi presidenti?

"Renato Sacerdoti, che mi volle alla Roma, Anacleto Gianni e Francesco Marini Dettina. Ho avuto un buonissimo rapporto anche con Franco Evangelisti: nonostante fossi ormai fuori dalla Società, avvertivo la sua stima e quella dei dirigenti. La verità è che la Roma mi ha sempre voluto bene. E io ho cercato di restituirle tutto questo amore".

"Anacleto Gianni mi chiese cosa volessi come riconoscimento per la mia lunga militanza con la Roma. Io gli risposi: La divisa sociale. Ancora oggi, come tu sai bene, lo stemma di quella divisa è appoggiato alla miniatura delle Coppa delle Fiere che il Club donò a ogni giocatore. Figlio mio, quello stemma ancora oggi continua ad avere un grande significato per me".

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