Nella sequenza iniziale della pellicola, dopo aver esultato per una prodezza del portiere Masetti ascoltata alla radio, Carletto – Tirabassi – non ha più dubbi sull’esito del campionato. E dice: “Quando che la campana sona a fa festa, segn’è che la domenica s’accosta. Non ce so’ cazzi, è l’anno nostro”.
La trama della pellicola è fortemente incentrata sul futuro tricolore della squadra di Schaffer. Tra riferimenti ad Amadei, Andreoli e altri protagonisti di quell’impresa, un gruppo di tifosi organizza la trasferta a Torino per andare a sostenere la squadra nella partita decisiva per lo scudetto. “Un viaggio lungo, con diverse sorprese e colpi di scena, come tutte le trasferte che venivano fatte al tempo con pochi soldi”, racconta Tirabassi.
Che ricordo ha di questo film, di quell’esperienza vissuta oltre 25 anni fa?
“Fui contento di partecipare, in particolare perché la sceneggiatura era stimolante, scritta bene, interessante. Non a caso vinse il premio Solinas (manifestazione italiana dedicata alla scrittura per il cinema, ndr). Io avevo 36 anni, lavoravo come attore già da un po’, avevo fatto parecchio teatro con Proietti e già qualche film”.
Non ha mai nascosto pubblicamente di tifare Roma, per lei fu motivo di soddisfazione in più poter far parte del cast?
“Sì, nel cast eravamo in tanti tifosi della Roma. Non tutti, però, perché si trattava di una co-produzione francese e quelli del calcio non gliene fregava nulla. Il più tifoso di tutti era proprio uno dei due autori della regia e della sceneggiatura, Bruno Garbuglia”.
Purtroppo, è venuto a mancare qualche anno fa.
“Sì, lui era soprattutto uno scrittore, un ottimo sceneggiatore. Eravamo amici, ci frequentavamo, abitavamo a pochi passi. Per un periodo collaborammo ad un’idea insieme, ma poi – come può capitare – non ci fu modo di arrivare in fondo a quel lavoro”.
Il fatto di essere tanto tifoso lo spinse a raccontare quel momento storico cruciale per la squadra giallorossa?
“Era una storia che gli piaceva e che volle raccontare al cinema. Lui era un romanista viscerale, ortodosso, davvero. Sapeva tutto, seguiva sempre la Roma. Peccato che il film non ebbe una distribuzione così capillare e nelle sale non si vide per tantissimo.
Anche in tv non passa molto spesso, io non lo vedo da tempo, però so che la Società giallorossa l’ha sempre tenuto in considerazione”.
In quali posti furono realizzate le scene madri?
“Le sequenze iniziali tutte a Roma, in particolare alcuni esterni alla Garbatella. Poi, trattandosi di un film che parla di un viaggio, fu un percorso itinerante, di pari passo con la trama.
"Alcune riprese avvennero in Toscana nella zona della Feniglia, le scene con Carlo Monni (anche Vitellozzo in "Non ci resta che piangere", ndr) e il pallone di Masetti da recuperare. Fino poi arrivare a Torino, come sceneggiatura imponeva”.
A proposito di trasferte, Tirabassi come nasce romanista?
“Per la mia famiglia, per mio padre. Ecco, lui lo vide lo scudetto del 1942, essendo del ’20. Aveva poco più di 20 anni e i ricordi suoi erano nitidi. Me lo raccontava spesso. La mia fede giallorossa non ha conosciuto mai tentennamenti, giusto all’inizio…”.
All’inizio?
“Sì, verso i 5-6 anni non ero ancora del tutto sicuro della squadra che avrei voluto tifare. Roma o Lazio? Non avevo ancora le idee chiarissime, quando le parole di un mio cugino mi tolsero ogni dubbio. “Tu sei nato a Roma, non puoi che essere tifoso della Roma”. E così fu, senza ripensamento alcuno”.
Ricorda la prima volta allo stadio?
“Sì, un Roma-Atalanta del 1965 finito in pareggio. Pioveva. Ricordo molti giocatori dell’epoca. Anche dei primi anni 70 con Zigoni, Cordova. “Ciccio” era fortissimo davvero, quando gli andava di giocare”.
E in tempi più recenti?
“Ho portato mio figlio allo stadio per diverse stagioni, avevamo fatto l’abbonamento in Tribuna Tevere. Negli ultimi anni lo stadio l’ho frequentato meno, ma in televisione la Roma la seguo sempre. E non potrebbe essere altrimenti”.
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