Serie A, Domenica, 15 DIC, 18:00 CET
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Il nostro giorno dopo è sempre questo: amare


Anche i nostri figli adesso hanno il loro Roma-Liverpool: quelli della mia generazione che hanno vissuto da ragazzini il 30 maggio 1984 ora sono padri di ragazzini che hanno vissuto Budapest.

Da quella notte di Coppa e di Campioni a questa di Coppa Uefa sono passati 39 anni: 39 anni è l’età che aveva Agostino Di Bartolomei quando si è sparato al cuore scegliendo quel giorno, e quella partita, per farlo.

Con l’età di una vita che non c’è più come unità di misura, questo sembra persino più di una maledizione: la sua età per sempre che è anche la nostra età per sempre. Inchiodati, magari tra i pianeti, magari incantati, ma comunque fermi come stelle fisse.

Che giri fanno due vite? Forse lo stesso? E ti vengono in mente gli insegnamenti della tragedia greca dove le colpe dei padri ricadono su quelle dei figli, al di là del merito umano: per fato, per gli dei, per un cielo sbagliato, o, molto di più, per l’arbitraggio.

E da lì a sentirti in colpa per aver fatto tuo figlio romanista come te è veramente un attimo: papà t’ha fatto pure sto regalo oltre alle tare che per forza si trasmettono per dna. Ma se al Dio degli inglesi non dovevi credere mai, adesso proprio non je devi dà retta, né a lui, né ai classici e nemmeno a ’sta stronzata pensata su tuo figlio (perché farlo romanista è sicuramente la cosa migliore che gli hai trasmesso).

E non devi dar retta nemmeno a te stesso, al dolore che provi adesso, a chi ti scrive che anche i nostri figli hanno il loro Roma-Liverpool, perché i nostri figli hanno un padre – tanti padri – che l’hanno vissuta, e perché tuo figlio l’anno scorso ha vinto una coppa europea che tu invece hai aspettato 61 anni e dopo un anno e s’è fatta un’altra finale.

Non accostate Souness a Navas, se non altro perché lo stanno facendo quegli altri (ve sete scordati Bergomi e Matthaeus comunque), perché se è vero, come è vero, che in questa notte prima degli esami che non smettiamo di cantarci la matematica non sarà mai il mio mestiere, è ancora più vero che tra il 30 e il 31 c’è un 25, di maggio. Budapest non è stato il nostro giorno dopo, il Dopostoria, come tutti avevamo sognato, come già era stato raccontato, perché il nostro giorno dopo è stato Tirana.  

Se andate a Testaccio c’è un disegno di Agostino che si prende in braccio Pellegrini, guardatevi la pelle non ce l’avete una coppa tatuata o una scritta – Tirana – o una data – 25 maggio 2022? Che avemo giocato? Che ci dimentichiamo di noi stessi? Che basta un anno per tornare alla litania ante Mourinho?

Come fanno a non essere veri quei giorni di festa, quel sorriso ridisegnato sul volto di Ago, quella coppa idealmente consegnatagli dopo tutto quel tempo? Vi ricordate di Fabio Ridolfi, quel ragazzo che scelse di andarsene ma prima di farlo chiese di vedere la Roma e poi un messaggio di Pellegrini? Il fratello disse. “Te ne vai da campione d’Europa” e questa coppa lo ha reso più orgoglioso di tifare Roma”. Ho pudore nell’aggiungere altro. Ma questa è stata Tirana.

Tirana è stato il giro sul motorino di Luca Di Bartolomei nell’anniversario del suicidio del padre parlando stavolta di lacrime di gioia e di vessillo stavolta in porto. Che giri fanno due vite? Questi.  

Guardatevi la pelle, non solo per i tatuaggi perché se siete romanisti lì c’è la Roma. E oggi davvero più di ieri. A pelle come qualcosa però che arriva non da fuori, ma da dentro, un marchio d’anima fatto dal cuore con l’inchiostro del sangue e della bile. Oggi la senti di più. Oggi siamo tutti più vicini.

La Roma è un amore feroce, sono colori forti che ami alla follia o che disprezzi, la Roma è essere della Roma, appartenerle cioè senza poter scegliere niente altro di diverso, la Roma è essere romanisti per davvero sempre, perché se riesci a distaccatte dalla Roma o a disamoratte o a dì pure un “però che palle” prego si accomodi da un’altra parte – sicuramente appunto in un posto più comodo – perché la Roma non sai manco do sta. Perché se ce l’hai ce l’hai dentro.   

Guardatevi la pelle sennò non farebbe nemmeno così male Budapest. Fa malissimo. È un dolore profondo che esplode nel petto se pensi a tutto quello che sarebbe stato (la Coppa Uefa finalmente, la Supercoppa, lo svuotamento totale di qualsiasi altra cosa successa calcisticamente quest’anno, due coppe in un due stagione e in un anno, il sorriso di Dybala e quello di mio figlio, persino il mio, e quello di Lei).

E non credo mi passerà facile. Anzi, credo che non passerà mai la nostalgia delle cose non accadute perché stavolta stavano proprio per accadere: le abbiamo persino viste, le abbiamo persino abbracciate al gol di Dybala in quel momento in cui abbiamo sentito nuovamente una cosa: TUTTO.  

I 55 secondi col Liverpool o il gol al 55’ del Siviglia credo stiano a indicare un altro tempo. Il nostro.

Io penso che ci sia stato un tempo fatto di grandi persone, di grandi sentimenti e di grandi sospiri che si meritavano partite del genere. E sogni così grandi. E cuori così folli. E notti di dolore rischiarate dalla maglietta della Roma. Io penso a Geppo che era un poeta.

Penso a tanti che non ci sono più, ma penso anche a chi c'è, a tanti ragazzi che hanno la luce dentro per questa squadra di calcio e che hanno rispetto per chi l'ha amata, semplicemente amata. Nella vita non puoi più che amare.

Pensavo che tutto questo fosse passato e invece questi sono i giorni che viviamo: l’unico filo rosso che lega la notte di maggio del 1984 e questa del 2023, il 30 e il 31, è l’amore verso la Roma.

L’enorme amore che abbiamo visto a Budapest nella gente che ha scelto di scegliere e di andare, quel ritrovarsi a casa dopo che hai preso un aereo o più probabilmente un paio, un van da 13 ore, un pullman da mille, hai dormito a Gorizia o in Slovenia, hai fatto scalo a Francoforte (ah, io a ‘sta cosa ci tenevo perché pensavo portasse bene visto che l’Eintracht era il detentore della coppa), passato per Istanbul (ma perché?!) qualcuno è ripassato da Tirana e forse ha fatto la cosa più romantica e romanista che si potesse fare.

Tutti hanno sognato al vantaggio, credo tutti abbiano capito che ai rigori non c’era niente da fare, tutti stavamo e stiamo ancora male. Tutti abbiamo amato la Roma.

Ma questo è il nostro tempo, ogni giorno è il nostro giorno dopo. C’è stato un tempo fatto di grandi persone, di grandi sentimenti e di grandi sospiri che si meritavano partite del genere. E sogni così grandi.

Il nostro giorno dopo è ancora questo: amare. Nella vita non puoi più che amare. Ora anche i nostri figli lo sanno.

Tonino Cagnucci