Il tema era "Dalla fine del mondo: dieci anni di Francesco". Ecco un estratto delle sue parole.
“Anche dal punto di vista sociale, la gente ha bisogno di un riferimento, che non sono io ma è il Club: in questo caso, il nostro Club.
Questa empatia, questo senso di appartenenza, questo senso di famiglia, questo senso di vinciamo e siamo felici, perdiamo e siamo tristi ma siamo insieme è un po’ come nelle famiglie. Un po’ come casa mia o in casa tua: c’è qualcosa da festeggiare e siamo felici, c’è da piangere e lo facciamo insieme.
Ovviamente, le nostre famiglie sono più importanti della famiglia calcistica. Però, penso che la Roma negli ultimi anni sia riuscita a fare questo per la gente. E ovviamente la gente ha risposto in modo assolutamente fantastico.
Il modo più facile per definire un grande club è farlo in modo pragmatico e obiettivo, dicendo: Vince tanto, è un grande club. Nessuno che capisce di calcio può dire che non sia vero che il Real Madrid sia il più grande club della storia perché è quello che ha vinto di più.
Però ci sono dei grandi club che non hanno mai vinto, ma sono grandi dal punto di vista sociale, affettivo, per questo senso di appartenenza che, qualche volta succede, può esserci anche in un piccolo villaggio con una società di quarta o quinta divisione in cui i bambini prendono la maglia del club del proprio villaggio, che perde sempre, ma è il proprio. E la Roma ha questa bellezza qui, accresciuta dal fatto che siamo in una città dove la comunicazione locale divide o cerca di dividere.
Per questo i romanisti sono ancora più speciali: non dovete ringraziare me, sono io che ringrazio voi".
"Un anno dopo avere terminato l'università, sono andato in una scuola frequentata da bambini con sindrome di Down. E non ero preparato. La mia formazione universitaria era incentrata sull'educazione fisica e sullo sport, lo sport di alto rendimento. Sono andato in una scuola ufficiale, diciamo, perché avevo bisogno di lavorare, e quando sono entrato lì non avevo né esperienza, né formazione: avevo paura, avvertivo la responsabilità, ero un ragazzo di 24 anni.
Alla fine di quei due anni lì, quando sono andato via, bambini, colleghi e genitori erano tutti molto tristi per il mio addio, perché ero stato un professore eccezionale. E perché lo ero stato? Perché la mia salvezza era l'unica cosa che avevo da dare: l'amore. Niente di più. Ho creato un rapporto con i bambini, che fortunatamente resiste ancora oggi, quando torno a casa mia, a Setubal.
Questo amore mi ha reso un professore eccezionale e mi ha permesso di fare con loro qualcosa di fantastico, per la loro crescita, per la loro formazione. Mi torna in mente in questo senso un mio ex professore all'università. Non parlo tanto di lui, ma non sono mai stanco di farlo. So che quello che sto per dire sembra una contraddizione, considerando che il mio obiettivo era lo sport di alto rendimento, ma il professore che ancora oggi, dopo quarant'anni, continuo a reputare il più importante è stato quello di filosofia. Non insegnava metodologie di allenamento o statistica: insegnava filosofia.
Lui mi disse una cosa che ancora è viva nel mio lavoro: "Tu non sei un allenatore di calciatori, tu sei un allenatore di ragazzi che giocano a calcio".
Queste due cose credo che mi abbiano aiutato molto lungo mia strada. Chi di voi segue di più il calcio può pensare che questo è un teatro, perché io non sono davvero così. Invece, io sono così. Io credo che i rapporti umani, l'affetto, l'empatia, l'amore siano alla base di tutto".
Lo sport di alto rendimento è crudele. Nel senso che con c'è spazio per i più deboli e l'obiettivo è molto, molto chiaro: per noi professionisti è vincere. Per i proprietari e per chi ruota attorno al mondo del calcio, gli obiettivi sono molto, molto chiari.
Oggi, i primi ad accompagnare i figli nella direzione crudele dello sport di alto rendimento sono i genitori, con le loro ambizioni, con le loro frustrazioni. Nello sport di base, dove io sono cresciuto anche come allenatore, si impara tanto. E quando dico che si impara tanto, intendo che si impara di più che in casa propria, dove ci sono mamma e papà e ricevi un'educazione più formale, mentre là (nello sport di base, ndr), invece lì hai uno spazio di evoluzione assolutamente fantastico.
Le garantisco al 100% che oggi ci sono dei genitori che dicono ai ragazzi di non passare la palla a un compagno, perché tu hai segnato 15 gol e il compagno è a 14. Questa è la crudeltà, che adesso è precoce. Però, il bello del calcio di formazione è che ci sono empatia, solidarietà, la ricerca della gioia di vincere, il fatto di sapere che quando perdi, la sconfitta non è l'inizio di un periodo difficile, ma il momento finale di un momento difficile. Questo messaggio passa molto bene nello sport in assoluto, non solo nel calcio: penso alla disciplina.
E non è solo lo sport a trasmettere questi valori, mi viene in mente l'arte. Sono tante le aree che hanno queste potenzialità. Però, lo sport dove non si punta a cercare la performance ma l'obiettivo è la formazione di base, è qualcosa di molto bello, che mi ha aiutato molto nella mia formazione come allenatore e poi, più tardi, nel calcio di alto livello".
"Quando si dice che il mondo è dei giovani, o che il futuro è dei giovani, io non sono d'accordo: il mondo è nostro, è di tutti. Il giovane che pensa di non avere niente da imparare dai capelli bianchi degli altri si trova in difficoltà. Ma lo sono anche quelli con i capelli bianchi che pensano di non avere niente da imparare dai giovani. E rappresentano un ostacolo al progresso, all'affermazione del mondo dei giovani.
Questo per me è molto importante. E lo è anche nel mio caso, di cui posso parlare con più facilità: un uomo di 60 anni, che allena venticinque, trenta ragazzi fra i 20 e i 30 anni, se non ha la capacità di imparare da loro, di confrontarsi con loro, di sentirli, se non ha l'umiltà di imparare da loro, è in grande difficoltà.
Per essere onesti, io mi trovo in una fase della carriera dove questo ostacolo non esiste, però l'ho incontrato. Anni fa, ho sentito questo ostacolo: il fatto di non capire bene le necessità, le cose che possono motivare di più e quelle che possono motivare di meno, e la capacità di lavorare su un determinato tipo di condizione.
Questo per me è molto, molto importante: la costruzione del loro futuro non può avvenire senza i capelli bianchi e, allo stesso tempo, chi ha i capelli bianchi, per continuare a restare giovane fino all'ultimo giorno, ha bisogno di loro, della loro conoscenza.
Il mondo è vostro, non è solo dei giovani. Il futuro ovviamente sì, però hanno bisogno di noi. Io ci sono passato, ho passato quella fase in cui pensavo di saperne di più di mio padre e di mio nonno. Ci siamo passati tutti".
"Non voglio dire un'eresia o qualcosa che possa sembrare una mancanza di rispetto, ma per Papa Francesco io utilizzo un’espressione molto calcistica: è uno di noi. Io lo vedo così.
Vado tantissime volte con i miei amici a fare delle passeggiate di sera per piazza San Pietro. Non l’ho mai conosciuto personalmente, ma se un giorno lo dovessi conoscere, la mia reazione sarebbe quella di dargli un abbraccio. Non riesco a vederlo come Sua Santità, il Papa.
Ovviamente lo è. Ma io lo sento così vicino, lo sento così normale: come Papa parla in un modo così diretto, lo capisco perfettamente. Il suo messaggio mi arriva perfettamente. Con tutto il rispetto, chiedo che si comprenda il mio messaggio: è uno di noi".
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