Serie A, Domenica, 15 DIC, 18:00 CET
Stadio Giuseppe Sinigaglia
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Un altro viaggio sul motorino...


Roma-Feyenoord è stata un’altra cosa perché ci costringeva a parametrarci con un bel pezzo di noi e buona parte della nostra storia: recente, recentissima, passata e lontanissima

Ma non per quello che si dice solitamente quando si scrive che è stata una partita da Roma (lo stadio pieno, l’inno, le bandiere, il profumo Anni 80 con l’odore buonissimo dei fumogeni e quello di Roma a primavera di sera che credo definisca il nostro dna, il cuore in pancia, l’inno un’altra volta, i supplementari, la Joya, la gioia al 120’, quel giallorosso che vedi pure quando chiudi gli occhi ritornato a casa e riesci a decantare quello strano irrinunciabile mix di adrenalina, stanchezza e di tempo sospeso che hai per mezza notte quando vince la Roma).

Roma-Feyenoord è stata un’altra cosa perché ci costringeva a parametrarci con un bel pezzo di noi e buona parte della nostra storia: recente, recentissima, passata e lontanissima.

Roma-Feyenoord era un obbligo già dal sorteggio: ci toccano loro, la squadra che abbiamo battuto nel nostro giorno di gioia, per un trofeo atteso 14 anni, per una coppa attesa 61 anni, per una notte europea che abbiamo dentro da troppo tempo, da “quel tempo” (in fila al botteghino dal 1984 per rigiocare un’emozione cronometrabile con l’eternità di un Capitano più 55 secondi).

È stato come rivivere, col rischio di ridefinirla, almeno un po’, Tirana. Rigiocare contro quella squadra significava per forza confrontarsi con quella notte, fare i conti con noi, i nostri festeggiamenti, quella canzoncina “La Roma sì e il Feye no” che era già un simbolo e un mezz’inno; gli adesivi appiccicati sulle auto e un po’ ovunque, le scritte sui muri, i manifesti con la coppa e quell’espressione che sembra pronunciata da Dio: “Roma Campione”.

Oddio, fosse andata male forse è vero che l'avremmo cantata comunque, che un quarto di finale non vale come una coppa vinta che resta per sempre: forse non è tanto quello che avremmo perso, piuttosto quello che avremmo guadagnato vincendo.

Si sa, si dice, vincere è difficile, ma confermarsi molto di più. Ecco per noi il Feyenoord un'altra volta aveva questa funzione e questo senso: un cimento, un esame, la maturità stavolta presa prima.

Roma-Feyenoord è stato come rubare un po' di tempo al tempo che fa appassire le cose, o che le fa dimenticare, o che le svilisce soprattutto se ti hanno fatto emozionare. È successo il contrario: abbiamo aggiunto tempo al tempo, una semifinale di Europa League a una Conference League.

L’inno ai supplementari dopo l’inno a inizio partita.

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Giovedì notte ci siamo sentiti più campioni, più forti, più noi. È come se avessimo difeso quella notte di Tirana anche nei suoi piccoli risvolti, nel cestino preparato al ragazzino per la prima mensa a scuola, come proprio a dire non v'azzardate nemmeno col pensiero, manco pe’ sbajo a dì o a fa qualcosa su Tirana. È roba nostra.

Quello che ogni romanista dovrebbe fare con la Roma sempre: guai a toccarla, guai a svilirla, guai a dire su di Lei le stesse cose che blaterano quelli che La odiano. In palio l'altra notte c'era un po' del nostro amor proprio e un bel po' della nostra capacità di crescere.

Uno stadio così folle per quanto innamorato eppure mai così maturo, presente, vincente. La rivoluzione punk che fa decreti legge. Credo che per questo abbiamo vinto ed evitato la nottata di lacrime e preghiere da “grazie lo stesso”, da “ma che ne sapete voi”, da “quando vince sei di tutti, quando perdi sei solo mia” eccetera, e proprio all'89 che è un bel vaffa allo stantio e vuoto vizio mainagioistico, proprio per dire questa notte è ancora nostra, ma non quella prima degli esami, piuttosto quella dell’esame superato a Tirana.

Non più la notte che ci fa male, ma quella in cui un padre va in giro di notte a festeggiare col figlio sul motorino... Splendori.

Quello che scrisse Luca Di Bartolomei dopo la vittoria della Conference League: “È un 30 di maggio chiaramente diverso: come padre, come famiglia, come romanisti. La prima grande differenza è che oggi non ci sono lacrime. Le mie le ho versate tutte in motorino, il 25 sera con te Andrea, amore mio. Voglio che tu lo sappia, che resti scritto da qualche parte, come l’incisione su una coppa. E voglio che tu possa leggerlo sempre. Vedermi piangere ha prodotto nel tuo sguardo quello stesso imbarazzo che ho provato mille volte anche io. E attraversare la città mentre mi abbracciavi è stato qualcosa di difficilmente spiegabile (…) Ci dovete altri vessilli, ragazzi, ce li meritiamo: io, ma soprattutto i milioni di Agostino che in silenzio vivono di amore per voi”.

Questo c’era in palio a Roma-Feyenoord: un altro giro sul motorino.

Tonino Cagnucci

Giovedì notte ci siamo sentiti più campioni, più forti, più noi. È come se avessimo difeso quella notte di Tirana anche nei suoi piccoli risvolti.

- Tonino Cagnucci