Campione d’Europa nel 1968 e titolare nel Mondiale del 1970 in Messico (perso in finale contro il Brasile), era un’ala di qualità e corsa, a cui riuscì anche l’impresa di vincere uno scudetto con il Cagliari a fianco di Gigi Riva nel 1970.
Riproponiamo un’intervista che Domenghini rilasciò per il match program del Club nel 2019.
Ecco le sue parole.
Domenghini, il suo nome compare in più di un momento glorioso nella storia della nazionale italiana. A iniziare da Italia-Germania 4-3, ad esempio.
“Parlano tutti di quella gara, che fu bella senza dubbio. Ma fu bella solo per trenta minuti”.
Come per trenta minuti e basta?
“Sì, solo nei tempi supplementari fu un match entusiasmante per mezzora, in cui vennero realizzati cinque gol. E quello decisivo bellissimo di Rivera, per il 4-3 finale”.
Sta sfatando il mito, di una sfida celebrata con una targa commemorativa fuori lo stadio Azteca…
“Non sto dicendo che non sia stata importante o avvincente, sto dicendo che fino al novantesimo fu noiosa. Andammo noi in vantaggio con Boninsegna, poi difendemmo per tutta la gara, affidandoci al contropiede. Se non fosse stato per quel gol di Schnellinger nel finale, non ne avremmo mai più parlato di quell’incontro. Anzi, le posso dire di più”.
Prego…
“Giocammo molto meglio in finale contro il Brasile. Per un’ora abbondante fummo alla pari col grande Brasile del ‘70. Andammo sotto nel punteggio per un gol di Pelè, ma poi pareggiammo sempre con Boninsegna. Ad un certo punto, iniziammo ad avvertire le fatiche della semifinale con la Germania, segnarono loro il 2-1 e da lì dilagarono e non ci fu più match. Un vero peccato, per me. Non mi accontentai di essere stato in campo nella sfida con la Germania e nemmeno di aver appena vinto un campionato con il Cagliari, proprio nel 1970”.
Tre anni dopo, dal Cagliari, passò alla Roma. Correva l’anno 1973…
“Andai a Roma perché mi richiese espressamente Manlio Scopigno, l’allenatore con cui vinsi lo scudetto in Sardegna. Io avevo 32 anni, ma ero ancora integro. Non a caso feci una delle stagioni migliori in assoluto della mia carriera, nonostante non ambissimo a traguardi di primo livello in classifica. Però sbagliai ad accontentarmi della metà dello stipendio, un calciatore non dovrebbe mai scendere a patti e condizioni".
"E all’epoca parlavamo di altre cifre, con le quali andavi avanti mese per mese. Non proprio come accade oggi. Si guadagnavano 10, 20, 30 milioni di lire l’anno. Io sono stato fortunato a prenderne 30, in alcuni momenti. In ogni caso, avevo dato la mia parola al mister Scopigno e la mantenni”.
Per il motivo economico restò un anno solo nella Capitale?
“No, anzi. Io sarei rimasto molto volentieri perché – come ho detto già – in campo feci la mia parte. Anche fuori mi trovavo bene, pur non tenendo una vita chissà quanto pretenziosa. Avevo un appartamento in via dei Monti Parioli, giocavo a pallone e non mi dedicavo ad altro”.
Non usciva mai la sera?
“Praticamente mai, io ero un professionista. Io…”.
Altri no?
“Parlo per me, degli altri non mi interessa. Io la vedo così: o fai il calciatore o fai altro”.
Dunque, perché non rimase?
“Fu il signor Liedholm a venire da me e a darmi il benservito, dicendomi che non rientravo più nei suoi piani. Dovevo essere venduto per far spazio al ritorno di De Sisti. Ma Picchio non c’entra nulla: giocava in un ruolo diverso dal mio ed era stato mio grande compagno di squadra in Nazionale, pure nel Mondiale del 1970”.
E poi?
“Mentre ero in vacanza mi fu comunicata, attraverso una lettera, la mia cessione al Verona in Serie B. E io, di buon grado, anche se a malincuore fui costretto ad accettare. D’altronde, una volta funzionava così. I giocatori non avevano grande potere decisionale sul mercato. I cartellini appartenevano al club e i club decidevano dove bisognava giocare”.
Cosa le è rimasto dell’esperienza in giallorosso?
“Il ricordo di una tifoseria incredibile, di una squadra gloriosa nel nome, anche se rischiammo la retrocessione quell’anno. E tanti amici come Cordova, Ginulfi, Orazi, Morini, Prati che ebbe problemi fisici…”.
In Nazionale si laureò campione d’Europa nel 1968.
“Vincemmo l’Europeo nel ’68 in casa nostra, in Italia, con la finale vinta a Roma contro la Jugoslavia. Anche in quella circostanza ero in campo, dal primo minuto. Una bellissima soddisfazione. Così come il Mondiale del ’70 in Messico. Quello perso in finale col Brasile, non quello di Italia-Germania 4-3. Almeno per me fu così”.
"Roma, il ricordo di una tifoseria incredibile"
- Angelo Domenghini
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