La carriera di Fulvio Pea – 10 febbraio 1967 – nel calcio è ultra trentennale. Parte da Fanfulla nel 1989 e arriva oggi in Cina dove è tecnico del Nanjing City nella seconda divisione.
Gli manca l’Italia, tanto. Soprattutto per il fatto di non poter stare con la famiglia. “È un anno che sto lontano da casa. Devo aspettare altri tre mesi per tornare dai miei cari. Ho un bambino di otto anni, è dura. La Cina è l’unico posto nel mondo in cui non ti puoi allontanare. Se lo fai, per rientrare devi ottenere tutta una serie infinita di permessi speciali e poi fare un mese di quarantena, cosa che con il mio lavoro non mi posso permettere, ovviamente”.
Tutta colpa del Covid. Com’è la situazione lì dove è cominciato tutto?
“Fino a fine marzo 2020 eravamo tutti in lockdown, severissimo. Come è emerso anche sui media. Non si poteva uscire di casa, non si poteva fare nulla. Da quel momento in poi, più nessun caso. Poi c’è stato proprio qui nell’aeroporto di Nanchino un focolaio di variante Delta con diversi casi. Di nuovo misure rigide e altre problematiche. Non so, sinceramente, quando ne usciremo da tutto questo”.
Le misure preventive sul calcio lì come sono?
“Noi siamo in bolla. Isolati e monitorati di continuo. Il campionato di Serie B cinese ha 18 squadre e il calendario è compresso di partite. Viviamo tra tamponi ogni 3 giorni, viaggi di continuo. Poi, quando torni alla base, sei di nuovo in quarantena per 20 giorni. Soprattutto per chi viene dall’estero come me è tutto molto più complicato”.
Per fare un esempio?
“Per fare un esempio, se vieni dall’estero ti vengono a prendere sotto l’aereo e ti portano direttamente in albergo dove non ti puoi muovere per restare in quarantena. A noi, invece, del Nanjing City quando ci tocca ci chiudono a Nanchino nel centro sportivo”.
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Ha fatto il vaccino, almeno?
“Ecco, questo è un altro problema subito in quanto cittadino straniero. Avendo questo status non ho potuto fare il vaccino. Vediamo, se estendo il contratto qui cercheranno di farmelo fare”.
Il Covid ha alterato ogni equilibrio, insomma.
“Totalmente. Non immagina quanta gente hanno rispedito a casa dopo l’inizio della pandemia. Ormai nel calcio siamo rimasti pochissimi stranieri. Nei settori giovanili dei club, soprattutto, venivano la maggior parte da fuori. Ora sono quasi solo tecnici cinesi. Il resto tutti licenziati”.
Parliamo di altro. Facciamo qualche passo indietro nella sua carriera?
“Volentieri. E mi fa piacere che mi abbiate contattato, che vi siate ricordati di me…”.
Anche un certo José Mourinho si ricorda di lei.
“Me lo auguro, non ci sentiamo da un po’… (ride, ndr). Scherzi a parte, quando sono stato allenatore della Primavera dell’Inter tra il 2009 e il 2011, il primo anno José mi coinvolse tantissimo nelle attività di prima squadra. Una cosa davvero nuova e inaspettata per me. Io venivo dalla Sampdoria dove avevo lavorato con Marotta e Paratici, allora dirigenti blucerchiati".
"Andai a Milano per completarmi, per compiere un ulteriore passo in avanti da un punto di vista tecnico, di carriera. E stando a stretto contatto con un allenatore del calibro di Mourinho, ho imparato davvero tantissimo”.
Domenica il tecnico portoghese in Roma-Sassuolo taglierà le 1000 panchine da professionista in carriera.
“Uno dei tanti traguardi di un tecnico eccezionale, ma soprattutto di un grande uomo. Come ho già detto, in quella stagione all’Inter nacque un ottimo rapporto tra di noi. Mi portò in ritiro a Los Angeles, mi diede l’opportunità di vedere ogni giorno i suoi allenamenti, cosa non scontata. E mi fece anche lavorare con i giocatori di prima squadra. È davvero un manager top, riesce ad accrescere tutto ciò che ruota intorno ad una società di calcio. A curare ogni dettaglio e i rapporti interni”.
E dopo l’Inter, andò a Sassuolo per la prima esperienza nel calcio professionistico.
“Dato che si trattò della prima esperienza da allenatore in prima, resta una parentesi positiva. Da un punto di vista tecnico riuscimmo a toglierci grosse soddisfazioni. A livello umano alla lunga ho pagato l’inesperienza, nonostante i risultati siano stati molto buoni. Lavorare nel Sassuolo per un allenatore è l’ideale, il club ti sta sempre a fianco, ti accompagna di continuo nel percorso facilitandoti il lavoro”.
Tra i tanti talenti che ha avuto a disposizione nelle varie esperienze a livello giovanile, quello che le ha dato più soddisfazione?
“Ce ne sono molti. In carriera non ho allenato grandissimi giocatori, affermati, ma ne ho visti nascere tanti. Per dire, oggi in Serie A ci sono due capitani – rispettivamente di Verona e Fiorentina – come Faraoni e Biraghi. Non solo ottimi giocatori, ma pure leader riconosciuti negli spogliatoi, uomini veri. Questo è il maggior riconoscimento per chi lavora in un settore giovanile. Non tanto i risultati sul campo, le vittorie, ma dare modo a un ragazzo di affermarsi e diventare professionista”.
È anche il principio professionale di Alberto De Rossi, l’allenatore della Primavera della Roma.
“Non a caso Alberto, che conosco e con il quale ho scambiato spesso delle impressioni, sia da 18 anni l’allenatore della Primavera e da quasi 30 lavori nel settore giovanile giallorosso (28, ndr). Anche lui ha visto nascere tantissimi giocatori e anche lui avrà la fortuna di rapportarsi quotidianamente con mister Mourinho a Trigoria. La stessa fortuna che ebbi io nell’Inter”.
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