In un articolo esclusivo per asroma.com, Will Sharp di These Football Times ci spiega perché quella di Paulo Fonseca è una scelta giusta.
Nonostante le inebrianti mezze verità professate da alcuni quando si elencano le qualità che un potenziale allenatore deve avere, dall’apprezzamento della cultura che contraddistingue il club all’approccio risoluto al calciomercato, dall’incrollabile desiderio di fondere esperienza e gioventù all’inclinazione a proporre un calcio offensivo e dai ritmi elevati, se i tifosi dovessero scegliere il proprio allenatore basandosi su una sola caratteristica chiave, questa sarebbe senza dubbio la capacità di vincere le partite. Tutto il resto è contorno.
Detta così, scegliere un allenatore dovrebbe essere il lavoro più semplice del mondo: scegli il curriculum migliore, con il più alto numero di vittorie ed eccolo lì, l’uomo perfetto per ricoprire l’incarico. Ma nessuno è perfetto. Anche gli allenatori che a prima vista sembrano infallibili sono umani ed è risaputo che il metro con cui valutare un allenatore non ha a che fare con la conta dei trofei vinti, bensì nell’esaminare la sua reazione alle avversità, nel suo essere presente nei momenti più complicati e analizzando il modo in cui riesce a risollevare sé stesso e il proprio staff dopo una sconfitta cocente. Ed è proprio da questa prospettiva che proviamo a conoscere Paulo Fonseca.
Il viaggio di Fonseca dal Mozambico, paese di nascita, fino a Roma è stato piuttosto articolato.
Dopo aver appeso gli scarpini al chiodo e aver lasciato il calcio giocato a 32 anni, Fonseca si è subito concentrato sulla carriera da allenatore, passando dal campo agli uffici della Estrela Amadora, ultimo club da giocatore, venendo nominato capo allenatore delle giovanili.
È lì che Fonseca ha iniziato ad affinare i capisaldi del suo modus operandi di allenatore, perfezionando la filosofia di gioco con la quale si sarebbe fatto un nome negli anni successivi. Le sue richieste erano un gioco caratterizzato da tanto possesso palla e pressing alto, con pazienti azioni di costruzione rotte da attacchi repentini ed esplorativi, combinazioni rapide e un centrocampo compatto assistito da linee alte composte di difensori centrali abili con la palla tra i piedi e fiancheggiato da terzini in sovrapposizione. Un gioco di sostanza, quindi, ma non senza stile.
Oltre ai suoi amati taccuini, i tratti da tecnico di Fonseca si sono sviluppati inizialmente sui campi di allenamento di Amadora. Un giorno tali principi di gioco sarebbero stati applicati ai vertici del calcio europeo.
Dopo una serie di rapide esperienze in club semi-professionistici, Fonseca trova fortuna nel suo primo lavoro da allenatore di un club professionistico, il CD Aves, allora militante nella seconda divisione del calcio portoghese, che gli consente poi di guadagnarsi la chiamata in massima serie, assumendo l’incarico di allenatore del Paços de Ferreira.
L’anno successivo, dopo aver ottenuto il terzo posto con nella Primeira Liga, miglior piazzamento della loro storia, e aver quindi garantito loro l’accesso ai preliminari di Champions League, Fonseca si ritrova circondato da una selva di microfoni e telecamere, a parlare alla stampa nazionale con una certa sicurezza, dopo essere stato nominato nuovo allenatore del Porto. A Fonseca sono bastati appena due anni per compiere un salto senza precedenti, passando dal suo primo incarico tra i professionisti alla panchina dei campioni di Portogallo.
Al Porto però Fonseca fatica e si ritrova messo alla porta dell’Estádio do Dragão appena dieci mesi dopo il suo entusiasmante benvenuto, a causa di un cattivo stato di forma della squadra che chiude il campionato al terzo posto, lontano dalla capolista Benfica e con il presidente del club desideroso di cambiare.
Dopo la scalata, arriva dunque una caduta. Tuttavia, è da questo momento in cui Fonseca inizia ad architettare la sua appassionata vendetta contro coloro che affermavano apertamente che le lotte al vertice e i trofei fossero fuori dalla sua portata.
Fonseca ritorna al Paços del Ferreira, dove si rilancia fino a sedersi sulla panchina del Braga. Dopo essersi spostato a nord, la stagione successiva Fonseca non solo chiude il campionato in quarta posizione ma conquista con il suo primo trofeo da allenatore, la Coppa di Portogallo, la seconda nella storia del club, 50 anni dopo il primo trionfo. Una vittoria resa ancora più dolce dall’aver sconfitto lo stesso Porto da cui era stato allontanato in maniera forse troppo frettolosa.
Lo storico successo di Fonseca non porta solamente all’adorazione da parte dei tifosi del Braga, ma spinge i campioni ucraini dello Shakhtar Donetsk a offrirgli di raccogliere il testimone lasciato dal leggendario Mircea Lucescu per tentare di proseguire sulla scia di vittorie del tecnico rumeno, in grado di conquistare 22 trofei in 12 stagioni. Fonseca acconsente e si trasferisce per la prima volta all’estero.
Utilizzando gli stessi metodi e lo stesso spirito affinati nei suoi primi dieci anni di carriera – il 4-2-3-1 fluido in grado di allungarsi rapidamente in verticale per garantire più ampiezza e pressare gli avversari da davanti con un 4-2-2-2 oppure compattarsi in un più tradizionale 4-4-2 difensivo – Fonseca riprende precisamente il lavoro fatto da Lucescu.
Il tecnico portoghese utilizza il talento presente nella squadra, amalgamando giovani stelle e giocatori più esperti e facendo divertire i tifosi, grazie ai due gol di media realizzati a partita e agli appena nove gol subiti in 22 uscite. Gli avversari vengono travolti dalla sua voglia di controllare il ritmo della partita, di conservare il possesso palla, di sfruttare l’ampiezza grazie ai terzini e di colpire in velocità quando si presenta l’occasione. Qualcuno ha paragonato il suo calcio a quello di Pep Guardiola, ma in realtà è più simile a quello di Jurgen Klopp: schietto, energico e feroce.
Alla sua prima stagione in Ucraina, nonostante le difficoltà dovute all’esilio forzato da Donetsk a per la guerra in corso, l’allenatore portoghese riesce a portare a casa il double nazionale, che gli garantisce il premio come miglior allenatore del campionato.
Nelle due stagioni successive Fonseca non solo replica in entrambe le occasioni l’accoppiata campionato-coppa, ma il suo lavoro viene anche riconosciuto oltre i confini dell’Est Europa, dopo la celebre vittoria sul Manchester City di Guardiola.
Tale successo consente alla squadra di avanzare alla fase a eliminazione diretta della Champions League 2017-18, ai danni di Napoli e Feyenoord. La finezza tattica di Fonseca e la sua idoneità a competere ad alti livelli non erano mai state messe così in risalto. Neppure quando si è presentato davanti ai giornalisti vestito da Zorro, indossando una maschera nera, un mantello e un cappello cordovano, come giocosamente promesso all’inizio della stagione.
Il che ci porta ai giorni nostri, con Fonseca pronto per affrontare la prossima tappa nella sua promettente carriera. Come ogni cosa, sarà il futuro a decidere ed è quindi impossibile sapere esattamente cosa le carte hanno in serbo per lui e per la Roma. Possiamo essere certi, però, della maniera in cui egli vorrà che queste carte vengano distribuite.
A differenza di quanto affermato in precedenza e di coloro che sostengono che i tre punti siano l’unico aspetto da considerare in una partita di calcio, per Fonseca, il gioco è anche altro: “Per me, non conta solo vincere” – ha dichiarato alla Associated Press. “Voglio che il mio sia un gioco di qualità. Voglio avere la palla. Voglio giocare sempre all’attacco. Voglio avere il coraggio di creare qualcosa di bello per i tifosi, perché amo il mio lavoro”.
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