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Il filo della Memoria


Erano tutti lì. Erano ai bordi della Roma. Erano uomini. Geza Kertész è morto il 6 febbraio 1945. Rubino Della Rocca, un mese prima. Il 25 gennaio. Angelo Sonnino invece è sopravvissuto

C’è un filo conduttore tra Geza, l’allenatore della Roma che raccolse l’eredità del campione d’Italia Alfred Schaffer, e i due tifosi Rubino e Angelo. È il filo del ricordo. Ed è un filo che non si spezza per un rigore non dato, un palo preso, una sconfitta, uno scudetto perso. È un filo che va oltre questa domenica di calcio giocato a Bergamo e che tiene unite idealmente Atalanta, Roma, la Serie A e l’umanità tutta, se ancora c’è umanità in questo nostro mondo. Domenica, è la giornata di quel filo. È la giornata della Memoria. Per l’Olocausto. Per la più grande tragedia della Storia.

Geza Kertész prende la Roma quando l’amico Alfred – sono ungheresi entrambi - gliela lascia, chiedendogli di accudirla come aveva fatto lui, portandola lassù sul tetto d’Italia, dove il 14 giugno 1942 era sventolato il vessillo “Viva la Roma campione d’Italia”. Kertész si presenta alla squadra il 9 dicembre 1942. Le cronache sportive passano in secondo piano rispetto però a quello che accade il 25 luglio 1943. La guerra incendia l’Europa e Geza viene richiamato in patria. È un ufficiale dell’esercito. Non può più allenare la Roma: deve allenare la sua gente. Ma Kertész fa di più. Molto di più. Come ricostruisce lo storico Massimo Izzi, assieme all’ex compagno di squadra István Tóth riesce a mettere su un’organizzazione segreta che punta a evitare la deportazione degli ebrei ungheresi nei campi di concentramento. Pur di riuscire nel suo intento, si traveste persino da ufficiale tedesco.

Tuttavia, poco prima che nel 1945 i cingoli dei carriarmati sovietici facciano il loro ingresso a Budapest, abbattendo così la resistenza nazista, una spia consegna Geza alla Gestapo. Il tecnico viene fucilato assieme a Tóth. Il suo corpo riposa nel cimitero della capitale ungherese, come “Martire della patria”. E negli anni 80 gli viene conferito il titolo di “Giusto tra le Nazioni” dallo Yad Vashem di Gerusalemme. È l’ente israeliano per la Memoria della Shoah. È l’ente che ha certificato che 26.973 persone non ebree si sono battute per salvare delle vite ebree. In quest’era di donne e uomini lasciati affogare o privati di un tozzo di pane, è bello sapere che ci sono stati 26.973 Geza Kertész. Lo Schindler del calcio, come l’hanno ribattezzato. L’eroe della Roma.

Erano tutti lì. Erano ai bordi della Roma. Erano uomini. Chiudete la porta, isolatevi, socchiudete gli occhi. E immaginate questo. È il 7 marzo 1943. È il derby. Sugli spalti dello Stadio Nazionale del partito Fascista, che sorgeva lì dove c’è oggi il Flaminio, siedono due tifosi. Si chiamano Rubino Della Rocca e Angelo Sonnino. Hanno storie e anche destini differenti. Ma un filo conduttore li lega a Kertész, che quel giorno si trova là sotto, sulla panchina della Roma.

Rubino era stato un abbonato di Campo Testaccio. La domenica portava i figli Lello, Angelo e Vittorio a vedere la Roma. E dopo la partita, a piedi o con la circolare raggiungevano la ex Galleria Colonna – ora è intitolata ad Alberto Sordi – perché lì appendevano una locandina con tutti i risultati della Serie A. “Ci andavano – ricorda Ruben, il nipote – soprattutto quando la Roma vinceva. Ci andavano con la speranza che la Lazio avesse perso, così da poter prendere in giro i cugini. Era goliardia”. Rubino, ebreo, viene arrestato il 25 novembre 1943 e deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Non farà più ritorno nella sua Roma. Dice Ruben: “Quando è morto, mio nonno aveva 44 anni. Il nazismo ha ucciso lui, ma non l’eredità che ci ha tramandato”. L’Olocausto ha cancellato le tessere di Campo Testaccio. Ma i nipoti e i pronipoti di Rubino siedono oggi in Curva Sud.

Ruben va oggi all’Olimpico con Angelo Sonnino. Sono vicini di posto. Angelo porta il nome del nonno. Quel nonno che il 7 marzo 1943 è anche lui allo Stadio Nazionale del partito Fascista. Da qualche parte, là in mezzo ai colori romanisti, c’è pure Rubino. Non si conoscono, forse. Ma sono uomini. E stanno assistendo al derby. L’unico che sarà giocato, e vinto, da Geza Kertész. Un anno dopo, Angelo Sonnino non salirà più su una gradinata, ma sui vagoni piombati che lo condurranno ad Auschwitz. Racconta il nipote: “Avevamo un locale in via Volturno. Per le leggi razziali, però, gli ebrei non potevano più possedere delle attività commerciali. Nonno fu quindi costretto a darlo in affitto. Un giorno, fu contattato per ridefinire il canone. Sospettando la trappola, si rifiutò di andare. Al suo posto si presentò il cognato, mio zio. Fu preso. Nel tentativo di comprarsi la libertà, disse che in casa aveva parecchi contanti. Giunto sotto l’abitazione di via della Reginella, fece il fischio di famiglia. Era un segnale concordato. Voleva dire che era tutto a posto. Le SS e le milizie fasciste entrarono e catturarono tutti. Nonno fu portato subito a via Tasso e poi a Regina Coeli. Da lì, finì ad Auschwitz”.

Deve la vita a un’astuzia. La svela Angelo: “Lo avevano spedito in un capannone dove producevano le canne dei fucili. Nonno però non sapeva lavorare il ferro. Lì incontrò un fabbro spagnolo. Lui gli disse che a Roma seguiva la scola catalana. Un rito ebraico. Ma il fabbro pensò che mio nonno fosse in realtà originario della Catalogna. Fu così che lo prese in simpatia e gli insegnò velocemente il lavoro. Nonno resistette ai quaranta gradi che c’erano in fabbrica, ai venti sotto zero dell’inverno e alla marcia della morte che i nazisti lo obbligarono a compiere per raggiungere Mauthausen. Fu liberato il 5 maggio 1945 dagli americani. Per il resto della vita, ha ricordato il terrore che aveva provato nel non sapere, tornato a Roma, se fossero sopravvissuti la moglie e il figlio”. Angelo li riabbracciò.

La Shoah aveva però spazzato via le esistenze del cognato e dei genitori, così come quelle di buona parte della Comunità ebraica. Cittadini romani come Rubino Della Rocca e uomini di calcio come Geza Kertész. Il 7 marzo 1943 erano tutti allo stadio per un Roma-Lazio qualsiasi, senza sapere che sarebbe stato l’ultimo. Senza immaginare che sarebbero diventati presto martiri della Storia o che avrebbero avuto un numero tatuato sulla pelle. E un filo conduttore che li avrebbe uniti, per l’eternità. Il filo della Memoria.