Serie A, Domenica, 15 DIC, 18:00 CET
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Quel goal della Roma a Como


Nel giorno della ricorrenza dell'esordio di Daniele De Rossi da calciatore in Serie A (25 gennaio 2003), riproponiamo un passaggio del libro "Il mare di Roma" scritto da Tonino Cagnucci.

L'allora centrocampista giallorosso, non ancora ventenne, debuttò dall'inizio nella partita di campionato contro il Como sul neutro di Piacenza (stadio Garilli). 

Ecco alcuni versi tratti da questa biografia, uscita nel 2009 (edizioni Limina).


Quel ramo del lago di Como... è un bell’inizio ma anche un anagramma che per ogni romanista è il principio di un altro romanzo. Fatelo: ramo-Roma, lago-goal, Como resta Como e le preposizioni danno il la: Quel goal della Roma a Como... La vita di ogni romanista è cambiata per sempre da quel momento, da quando Paulo Roberto Falcao ha dato il la giocando la sua prima partita nel campionato italiano. Era il 14 settembre del 1980. A Como. La Roma vinse 1-0 per un’autorete nel primo tempo di Volpi. Minuto 25. Natale. Dopo quell’esordio nulla fu come prima: intere generazioni di romanisti vennero educate all’arte da un calciatore sbarcato a Fiumicino, accanto al mare, direttamente dal sole, tanto era luce. Arrivarono le coppe in una città povera di vittorie, magliette bellissime, insieme antiche e nuove, vinaccia e porpora, indossate anche dai ragazzini sui sampietrini abituati da sempre a stracci e bandiere care e sgualcite. Era una Roma che tornò colta e bella, era la città di un’altra società che credeva di avere ancora molto da sognare: la Roma stava dappertutto.

Finire la rivoluzione del 1977 e vincere lo scudetto era la stessa cosa, soltanto che era molto più probabile il sovvertimento dell’ordine sociale rispetto al tricolore, d’altronde l’ultimo era stato vinto prima della Resistenza. (...) Si aveva a che fare sempre con un’emozione. Andare allo stadio era un privilegio di tutti: l’Olimpico era il paese dei balocchi, ma nessuno era più pinocchio. Le favole non avevano bisogno di morale. Era il tempo del sogno. La Roma era dappertutto. Era un fenomeno del pallone, della vita sociale, della musica, del cinema, un sottofondo quotidiano. Una compagna veramente. Se c’è stato un tempo in cui il popolo è stato al potere è stato quello, quando si arrivò a dire in uno stadio: ti amo. Arrivò lo scudetto. Si festeggiò in un Roma-Torino finito 3-1. Nel millenovecentottantatré. E tutto questo ebbe inizio dopo quel goal della Roma a Como. Misteriose corrispondenze fra poeti. Secolari alchimie fra iniziati. È storiografia che Alessandro Manzoni prima di scrivere i Promessi Sposi ebbe l’apparizione del Santo Vero: il Divino.

Da quel momento contro il Como in trasferta in serie A con la Roma ci ha esordito soltanto un altro giocatore: Daniele De Rossi, il 25 gennaio 2003. C’era la notte quel sabato sera, non perché era inverno, ma per far vedere meglio quel ragazzo biondo. Non aveva nemmeno vent’anni, lui che è nato quando tutto venne alla luce: d’estate. Nel millenovecentottantatré. Campo neutro di Piacenza, ma Como-Roma in schedina, negli almanacchi, nella storia. La sua stava ufficialmente per iniziare: quel giorno la Roma non segnò, ma soltanto perché De Rossi avrebbe dovuto aspettare un altro momento, un altro segno del tempo: un 10 maggio, che non pioveva ma c’era il sole, in un Roma-Torino finito 3-1. 

Magici appuntamenti del destino. Déjà-vu di Dio. Un doppio sogno. Come un’altra chance concessa dalla storia alla storia, un secondo esordio. Quello di De Rossi, rispetto al mito di Falcão, è un altro romanzo giocato davanti alla difesa, un altro modo di intendere la vita fra le due linee, di abitare l’orizzonte, lì nel mezzo, sospeso tra ciò che hai e ciò che vuoi, nella zona di tutti i dilemmi del mondo: il centrocampo. Amleto sarebbe stato sicuramente un grande regista, ecco perché soffriva a fare il personaggio. Colpa di Shakespeare che gli ha sbagliato ruolo. Merito di Capello se ha fatto esordire Daniele De Rossi lasciando in panchina uno che si chiama Pep Guardiola. De Rossi ha iniziato a giocare a calcio facendo vedere i tacchetti degli scarpini a uno dei più grandi centrocampisti di sempre. Soprattutto, lo ha fatto con nonchalance. Quel pomeriggio fu proprio Guardiola a comunicarglielo: «Giochi tu, Daniele», nello stesso giorno in cui era stato deciso l’addio del catalano alla Roma. Investiture.

Se, insieme a Pier Paolo Pasolini, Paulo Roberto Falcao è stato il più grande pensatore del Novecento, Daniele De Rossi è tutta l’energia che manca a questo secolo spento, l’unico antidoto alla crisi: una specie di fresco sopravvissuto, un nato vecchio, un saggio punk, un viaggio a Mompracem e il rifugio domestico, stornelli e Metallica, lui che sull’Ipod sente R&B e Lando Fiorini, sintesi riuscita di ragione e sentimento. Certi grandi uomini si riconoscono subito per un marchio di natura: Falcão lo era dalla fronte alta (ci si specchiavano il sole e la luna, nei pomeriggi o nelle serate di Coppa), Daniele De Rossi per quel biondo sfacciato e lucente dei capelli. È una specie di shining che si porta dietro. Una luce in mezzo al campo. Un fuoco d’artificio di giorno. Un miracolo maya. Una mattinata tedesca. Un girasole di van Gogh. Un solco in mezzo al campo e al viso. Una specie di sorriso. Ha giocato sempre con quello.

Tonino Cagnucci