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Un urlo in silenzio: "Viva la Roma Campione d'Italia"


La gioia fa parecchio rumore è vero. Ma forse la felicità non si può dire. Quando dopo 41 anni abbiamo vinto lo Scudetto, a Genova l'8 maggio 1983, il giorno dopo il Corriere dello Sport titolò "Un urlo: Roma": rendeva bene il silenzio e il rumore di quarantuno anni.

La foto era quella di Liedholm portato in spalle dai tifosi dopo essere stato abbracciato da Geppo. A Genova, e nel mondo, erano le 17.45. Per noi era la nostra ora. L'abbraccio fra Geppo, il poeta ultrà, il ragazzo che scrive al Guerino che forse è teppista perché pensa troppo, e il Barone, se le prende tutte quelle ore passate, perse, sognate, ed è l'immagine più bella di quella Roma Campione: la Roma aristocratica e popolare in un abbraccio, in uno scatto solo, tutto. Un urlo.

C'erano i popolari, le tribune, i Baroni e i Geppo, gli spalti pieni di strana, felice, inedita attesa la mattina del 14 giugno 1942 allo Stadio Nazionale contro il Modena. La Roma era in testa e doveva vincere per la sicurezza. Per la felicità.

C'era Roma e fatela rispettare quando qualcuno si permette di dire qualcosa su questo Scudetto enorme, vinto all'ultima giornata sul Torino che soltanto dopo questo Scudetto sarebbe diventato Grande. Abbiamo vinto il primo tricolore sotto la linea gotica e siamo stati l'ultima squadra a battere il Grande Torino. Rispettate la storia. Rispettate la gente che ha tifato Roma da sempre.

Rispettate chi è stato Roma prima di noi e ci ha fatto romanisti. Poeti. Anche in uno striscione, in uno stendardo. Ce n'era uno quel giorno, il 14 giugno 1942 e quando venne esposto lo stadio fece un attimo silenzio: c'era scritto: "Viva la Roma Campione d'Italia"

Era un urlo. Lo avevano preparato i fratelli Francesco e Gioacchino Lalli. Due romanisti. 

Abitavano a Centocelle, quel giorno presero il tram fino a Porta Maggiore, da lì l'autobus fino a piazzale Flaminio e a piedi fino allo stadio. Quel giorno – il 14 giugno 1942 – era il giorno dello Scudetto della Roma. Quando lo srotolarono in tribuna lo stadio applaudì: quello stendardo esprimeva per conto di una generazione un'emozione troppo grande da dire a parole. 

Per loro, per Francesco e Gioacchino, era letteralmente così: erano sordomuti. Scrissero quello che non potevano urlare. 

Perché la gioia fa parecchio rumore, ma la Roma non si può dire. È quell'urlo che senti dentro. Oggi sono più di 80 anni. 

È una vita che lo sento.

Tonino Cagnucci