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Mangone: "Mourinho si è calato perfettamente nella realtà di Roma"


Amedeo Mangone è tra quelli del 2001. Uno dei protagonisti che fecero l’impresa tricolore, vincendo il terzo scudetto della Roma dopo 18 anni.

Difensore solido, fisico, con buona tecnica, arriva nella Capitale nell’estate del 1999 dal Bologna all’età di 31 anni e ci resta per due stagioni contribuendo al titolo. Gioca più il primo anno che il secondo, complessivamente mette insieme 49 partite tra Serie A e coppe.

È stato anche al Milan, nel settore giovanile. “Nella Beretti il mio allenatore era Italo Galbiati, poi incrociai anche Fabio Capello in un paio di momenti. Capello che poi trovai a Roma”.

Nel 1999-00 e 2000-01. “In quella stagione vincente fummo tutti importanti, in campo e fuori. Chi non giocava, era pronto a dare un supporto e a guidare con l’esperienza anche i più giovani. Si creò una bella alchimia, in quell’anno”.

Il 17 giugno scorso sono stati 20 anni da quella storica vittoria. Vi siete sentiti tra ex compagni di squadra?

“Sì, ci siamo scritti, abbiamo ricordato quei momenti. Alcuni si sono potuti anche riunire a casa di Candela per una rimpatriata. Non tutti, però. Con le limitazioni, il momento che stiamo vivendo e il fatto che molti fossero stranieri, non è stato possibile presenziare al completo. Ma ci scambiamo messaggi di frequente, abbiamo una chat su Whatsapp”.

Ah, chat creata da chi?

“Da Damiano (Tommasi, ndr). Credo quattro o cinque anni fa. Almeno così è più facile avere un rapporto diretto”.

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Quali furono i segreti di quel trionfo?

“Ci furono tante componenti che andarono per il verso giusto. L’allenatore, Fabio Capello, riuscì a capitalizzare il lavoro della stagione precedente, mettendo dentro la formazione titolare tre elementi di assoluto valore come Samuel, Emerson e Batistuta. Uno per reparto. E continuò con l’assetto difensivo con tre centrali. La squadra era fortissima. Inoltre, a mio avviso, un altro paio di fattori furono decisivi”.

Ovvero?

“Il primo, lo scudetto della Lazio. Quel titolo lì, conquistato all’ultima giornata, dai rivali cittadini, ci portò inevitabilmente a dover competere per forza per le prime tre posizioni. Avevamo i mezzi per farlo, dovevamo farlo. Non ci potevamo nascondere più”.

E l’altro fattore?

“Dico la contestazione che ci fu a Trigoria dopo l’eliminazione in Coppa Italia ad opera dell’Atalanta. Specifichiamo, certe manifestazioni non dovrebbero mai esserci, soprattutto se superano i limiti della civiltà. Tuttavia, in quella circostanza capimmo il messaggio dei tifosi. Capimmo cosa volevamo e che era tornato il momento di vincere qualcosa di importante. Lo scudetto dopo 18 anni. Mi auguro che la Roma possa tornare presto ad ottenere vittorie di questo tipo”.

Il Club e un tecnico come Mourinho stanno lavorando in questo senso.

“Vero. Il nuovo proprietario sembra una persona molto quadrata, con idee chiare. Il tecnico portoghese lo conosciamo bene tutti. Ha carisma, storia, vuole mettere le basi per vincere in futuro. Ha detto a più riprese che serve tempo per arrivare a certi livelli e ha ragione. Ma sta dimostrando da subito di essersi calato perfettamente in una realtà come quella di Roma. Sta facendo cose buone, anche dal punto di vista tattico. Il cambio di sistema di gioco, passando a tre dietro, è un segno di intelligenza per mettere nelle migliori condizioni i calciatori”.

Allenatore vincente che decide di giocare a tre in difesa. Non le sembra un déjà vu di una ventina di anni fa?

“Già, come detto anche in precedenza, Capello all’epoca adottò questa formula soprattutto per sfruttare al meglio le caratteristiche di due giocatori fortissimi come Cafu e Candela sulle fasce, dando loro libero sfogo e permettendo di avere uomini in più nell’area avversaria. Io il primo anno formavo la linea difensiva titolare con due fuoriclasse come Aldair e Zago”.

È vero ciò che si leggeva sulle cronache dell’epoca? Se non fosse arrivato lei, al suo posto sarebbe stato ingaggiato il ventunenne Rio Ferdinand del West Ham?

“Sì, assolutamente, confermo. Me lo disse anche il presidente Franco Sensi quando ci parlai al telefono per definire la trattativa”.

Racconti pure.

“Allora, inizia tutto dal Bologna. La società quell’anno mi offrì un contratto pluriennale per finire la carriera in rossoblù. Poi, ad un certo punto, arrivò la proposta della Roma che cambiò i piani di tutti. Capello voleva un centrale affidabile per completare il reparto. Il Bologna ne prese atto, io sentii al telefono i dirigenti Franco Baldini e Fabrizio Lucchesi, ma per la definizione dell’affare mi chiamò Sensi in persona. E questa cosa mi fece effetto. In positivo, ovviamente”.

“Il presidente mi disse di decidere in poco tempo, altrimenti – testuale – “prendo Rio Ferdinand per il quale ho un’opzione che mi scade tra pochi giorni”. Io dissi di sì alla Roma senza pensarci molto. L’opzione per l’inglese scadde, anche perché all’epoca Ferdinand era giovane, non ancora il centrale fortissimo che avremmo visto anni dopo allo United”.

Cosa ha rappresentato per lei giocare nella Roma?

“Tantissimo, tutto. A Roma, nella Roma, ti rendi conto cosa significa fare il calciatore. Ti fa sentire importante. Soprattutto dopo le vittorie”.

Chissà come si sarà sentito allora dopo il derby del 21 novembre 1999, in cui vinceste 4-1 segnando quattro gol in 31 minuti. E due assist – per i gol di Montella – furono proprio i suoi.

“Che giornata, quella. Particolare, intensa, bellissima. A cominciare dal riscaldamento sotto la curva Sud prima della partita. Cosa che non avevo mai fatto in carriera. Un’atmosfera da brividi, da vivere. Battemmo una squadra fortissima, che poi avrebbe vinto il campionato. Anche se, me lo lasci dire, uno dei due assist fu abbastanza fortunoso”.

Resta agli atti, però. Lei oggi è allenatore. Come procede la sua attività?

“Sì, preparo dei ragazzi e mi piace. In passato ho guidato diverse squadre, anche in Brasile. Prima del lockdown ho dato una mano al Brera, cercando di mettere su una squadra con ragazzi extracomunitari, profughi, un’attività sociale. Avevamo fatto qualche partita, poi c’è stato il primo lockdown che ha fermato tutto. Vediamo in futuro cosa accadrà. A settembre-ottobre sono stato due mesi in Africa a vedere calcio africano. Mi sono divertito. In Sudafrica, Zambia, Kenya, c’è tanto materiale su cui lavorare”.

Quanto è stato difficile per la sua famiglia vivere questi ultimi due anni tra restrizioni e divieti?

“Beh, è stato difficile senza dubbio, per noi come per tutti. È cambiata la visione della vita un po’ in generale. I rapporti interpersonali non sono più quelli di prima. Stiamo sempre attenti con le precauzioni del caso. Abbiamo anche preso il Covid di recente. Il nostro Natale è stato in casa. Ma, per fortuna, eravamo tutti vaccinati e la malattia si è manifestata in forma lieve, come un’influenza. Passerà questo momento, prima o poi”.

"A Roma, nella Roma, ti rendi conto cosa significa fare il calciatore. Ti fa sentire importante"

- Amedeo Mangone