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Click: occhi chiusi di gioia


Succede spesso quando gli umani sono felici o soddisfatti, e succede per motivi diversi: hanno tutti a che fare con una parte di noi che non controlliamo. Li chiudiamo perché vogliamo trattenere quello che abbiamo appena visto e vissuto, per elaborare e conservare, e isolare un ricordo dal flusso che di immagini che bombarda le nostre retine, come se la nostra testa fosse una camera oscura, e quella foto che hanno appena scattato i nostri occhi avesse bisogno di un attimo in più di buio per non deteriorarsi.

Chiudiamo gli occhi perché già subito dopo la realtà non è bella come quella di un attimo prima, quando per un istante si è piegata alla nostra volontà per aderire ai nostri desideri.

Chiudiamo gli occhi perché la gioia ci fa abbassare la guardia, disinnescando un meccanismo di protezione primordiale che condividiamo con i nostri antenati.

Chiudiamo gli occhi perché il nostro cervello è educato ad evitare sovraccarichi sensoriali, è istinto, non è pensiero, li chiudiamo quando mangiamo una cosa buona per cullarci nel piacere che ci trasmette il gusto, o quando sentiamo un odore cattivo per timore che corrisponda a qualcosa di spaventoso, ma soprattutto quasi sempre li chiudiamo quando abbracciamo qualcuno, perché il tatto è già così tanto da processare che il cervello comunica alla vista che può andare a farsi un giro, che non ci serve e che anzi rischia di rovinarci la festa.

Nel nostro caso sarebbe un gran peccato, perché questa festa ce la siamo meritata con la fatica e con l’intelligenza, con la strategia e con il sudore che si è perso in quella pioggia che ha reso tutto più difficile e faticoso, e quindi, alla fine, più bello.

Questa foto immortala quel momento, quella fine, quel più bello, e racconta meglio delle parole il modo nel quale la Roma a Verona ha conquistato il suo premio, perché ritrae prima di ogni cosa un gruppo che vuole vivere tutto insieme. Sembra un monumento alla condivisione, un po’ improvvisato, e per questo molto sincero. Perché non è banale che in questa foto ci siano Fazio, Smalling e Mancini: specialmente in una partita con il vantaggio da difendere nei minuti di recupero un difensore non ci finisce per caso in un abbraccio dall’altra parte del campo. Ci sta se ci vuole stare, se corre per esserci.

Sfogliando gli strati di questa costruzione di corpi puoi ricostruire chi si trovava più vicino all’epicentro della gioia quando è diventata gol, basta tenere a mente che il nucleo non è chi lo ha segnato, ma chi lo ha costruito e reso possibile.

Tolti i difensori ci sono cinque giocatori e due di loro non sono attaccanti. Kolarov e Veretout rappresentano, in questa scultura di carne e pioggia, il coraggio di una squadra che due minuti dopo il novantesimo continua ad avere la forza e la voglia di accompagnare la proiezione offensiva. Mkhitaryan è invece la puntualità, in senso più ampio di chi rientra da una lunga assenza, e più in dettaglio di chi raccoglie un assist al centro dell’area (e a breve in questa foto anche uno schiaffo da Mancini, che è l’unico con gli occhi aperti perché sta prendendo la mira per darglielo).

Sotto di loro, il cuore di questo abbraccio, che è un abbraccio a sua volta: quello tra Pellegrini e Perotti. Il primo ha portato in avanti con forza e grazia quest’ultimo ennesimo pallone, e il secondo ha finalmente giocato la partita che voleva giocare da quando a una manciata di giorni dall’inizio del campionato era stato tradito dai suoi muscoli.

Ci sono voluti mesi, e forse, come tutti noi quando le cose ci si mettono male, ha pensato che potesse non toccare più a lui di cambiare il corso delle partite, di lasciare segni, di procurare un momento di gioia così liberatorio che ti viene voglia di abbracciare le persone, di chiudere gli occhi e di non farlo passare più.